Come è facile immaginare, più facile perseguire la prima, un po’ più complessa soddisfare la seconda; però qualche giorno fa ho pensato di unire almeno in parte le due cose, ed in attesa di poter godere dello splendido tempio shintoista proposto da Daniele san, ho pensato di provare a costruirne un qualcosa che almeno rozzamente avesse le parvenze del mio “oggetto del desiderio”.
kamidana disponibili su Hamakurashop.com Chi frequenta questo luogo virtuale con una certa assiduità ed attenzione avrà notato che il sottoscritto ha – tra le tante – due passioni: prodursi in lavori di bricolage usando come materia prima prodotti di scarto e possedere un giorno uno dei bellissimi
Come è facile immaginare, più facile perseguire la prima, un po’ più complessa soddisfare la seconda; però qualche giorno fa ho pensato di unire almeno in parte le due cose, ed in attesa di poter godere dello splendido tempio shintoista proposto da Daniele san, ho pensato di provare a costruirne un qualcosa che almeno rozzamente avesse le parvenze del mio “oggetto del desiderio”.
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__Abbiamo parlato qualche tempo fa della manutenzione delle lame d'acciaio, e torniamo per certi aspetti su questo argomento parlando di un film che evoca la spada già nel titolo. Si tratta di “Sword of doom” (titolo originale: Dai-bosatsu tôge) del 1966, per la regia di Okamoto Kihachi e la sceneggiatura di Hashimoto Shinobu e Nakazato Kaizan. Il cinema giapponese e le sue finezze stilistiche possono essere a volte difficili da comprendere per uno spettatore occidentale; una società in cui il silenzio conta più delle parole non può non produrre una cinematografica che costringe all’introspezione e ad una visione affatto attenta e partecipata. Nel caso di questa pellicola ciò è ancora più vero perché i confini tra bene e male sembrano netti e invece spesso di confondono tra loro, costringendo lo spettatore a vivere emotivamente alla vicenda raccontata. _In un precedente articolo, dedicato all’orientamento del Dojo, si è accennato al Kamidana, uno dei più importanti componenti dell’arredamento tradizionale nipponico. Il termine, letteralmente, significa “mensola degli Dei” e riproduce, in maniera più o meno stilizzata, la miniatura di un tradizionale tempio shintoista. Nella sua versione più semplice è costituita da una o più mensole (tana) presenti nelle case popolari (minka) del periodo Edo su cui sono alloggiati dei talismani di carta ((kamifuda), degli amuleti (gofu), offerte votive ed altri oggetti votivi quali candele, composizioni floreali e offerte costituite da riso, frutta, o sakè che vengono sostituite giornalmente. Poco si sa sulle origini del kamidana, anche se l’usanza di porre piccoli templi alle divinità tutelari all’interno delle abitazioni si può far risalire al periodo della aristocrazia, come dimostrano le ville patrizie del periodo Heian. _Dojo nomino Karate to omou na può tradursi come "Non pensare che il Karate si esplichi solo nel Dojo; qesto principio è stato formulato dal M° Funakoshi e viene illustrato dello Shoto Nijukun all’ottavo posto. Esso vuole insegnare che un praticante di arti marziali non dovrebbe pensare che l’esercizio della tecnica nel Dojo sia più importante dell’esercizio della sua condotta interna nella quotidianità. Molti allievi si concentrano sulla tecnica, ricoprendo questa la massima importanza ai loro occhi, e tralasciano l’esercizio del comportamento. In tal modo omettono di riconoscere importanti nessi nell’esercitazione del Budo e, mentre combattono in vista dell’auspicato progresso, mancano il senso della Via. Guardano presuntuosamente dall’alto a ciò che considerano di scarso rilievo e non si accorgono che in tal modo danno luogo ad una condotta che impedisce il loro progresso nella Via. Il progresso nelle Arti marziali consiste in nessi di ampia portata e non è in nessun modo il risultato esclusivo della tecnica. Non è possibile descriverne i molti aspetti, perché in tal caso occorrerebbe parlare delle condotte interne nei confronti della vita. _(Traduzione e adattamento di: “Daruma: Determination and Zen Training in Budo” di Charles C. Goodin) Chiunque abbia visitato una casa giapponese, un ristorante o un ufficio, avrà quasi sicuramente visto una bambola Daruma, dalla classica forma tondeggiante e con l'ombelico bene in vista sul ventre prominente quale simbolo di prosperità e buona fortuna. Quello che forse non tutti sanno è quale rapporto ci sia tra questo personaggio, lo Zen e le arti marziali. Quando è nuova, la bambola è dipinta di rosso ed ha entrambi gli occhi vuoti; chi la acquista o la riceve in regalo deve esprimere un desiderio oppure incominciare una attività, quindi dipingere uno dei due occhi, mentre il secondo verrà realizzato solo quando il desiderio si sarà avverato o il lavoro terminato con successo. La bambola ha il fondo arrotondato ed appesantito, in maniera da tornare sempre in posizione eretta anche se colpita alla sommità, raffigura con ciò il motto giapponese “Nana korobi ya oki, jinsei wa kore kara da”, che può essere tradotto come “cadere sette volte e rialzarsi otto volte, la vita inizia adesso“ ed invita ad essere costanti e determinati nei nostri propositi, rialzandoci ogni volta che si cade senza mai demoralizzarsi, ovvero continuando il nostro lavoro indipendentemente dai problemi e dagli imprevisti che tendono a fermarci. _Una serie di credenze derivate principalmente dallo scintoismo ritenevano che anche le armi avessero un proprio kami e che quindi ognuna andasse curata e rispettata come un essere vivente; pur senza necessariamente riconoscersi in tale tradizione, è evidente che una qualsiasi arma, in quanto sottoposta a stress e sollecitazioni diverse durante la pratica, necessita di una periodica manutenzione. Le armi in legno non richiedono grandi cure, se non un passaggio con carta abrasiva leggera per rimuovere eventuali schegge e una successiva passata di olio o cera d’api per nutrire il legno e impedire che si secchi troppo (senza esagerare nelle quantità, altrimenti l’arma diventa scivolosa e difficile da maneggiare). Un po’ più di attenzione richiede la manutenzione delle armi metalliche, anche in funzione del materiale con cui sono realizzate le lame. Cominciamo col dire cosa NON fare: non usare grasso sulla lama, che ungerebbe mani, abiti e ogni altra cosa con cui verrebbe a contatto, non riaffilare la lama, operazione delicata da riservare a chi abbia esperienza e strumenti adatti al da farsi (purtroppo non sono pochi coloro che hanno affidato la loro lama al primo arrotino i passaggio, con danni irreparabili...), non dedicarsi a “esperimenti” quali lo smontaggio della tsuka, lo svolgimento dello tsuramaki (la fettuccia di seta avvolta sul manico), la rimozione del samegawa (il rivestimento di pelle di razza del manico) e dei menuki (piccoli scudetti di metallo con figure in rilievo fissati sul samegawa sotto lo tsukamaki) se non si è più che sicuri di riuscire a ripristinare il tutto. Il motto che prendiamo in esame questa volta è ikkoku senkin la cui traduzione letterale è “Un momento, migliaia di ori” e che in qualche modo equivale al nostro “Il tempo è denaro”. Viene quindi impiegato per evidenziare la condizione in cui si hanno da fare molte cose importanti , come ad esempio nella frase: “Anata ni aete ikkoku-senkin no toki o sugoseta” (Ho poco tempo prezioso da dedicarti). “Gohatto” (Tabù), una coproduzione cinematografica inglese, francese e giapponese del 1999 con la sceneggiatura e la regia di Nagisa Oshima e le musiche di Ryuichi Sakamoto, che vede tra gli interpreti Takeshi Kitano, Tadanobu Asano, Shinji Takeda, Ryuhei Matsuda, Yoichi Sai, Koji Matoba,Tomoro Taguchi e Masa Tommies. La storia inizia nell’anno 1865, a Kyoto, nell'area di tirocinio della truppa Shinsen-gumi, voluta dagli Shogunati per ripristinare l'antico potere costituito e composta da giovani di età compresa tra i dieci ed i trent’anni, incaricati di mantenere il controllo militare contro i patrioti di Kyoto (allora capitale del Giappone) ed acquartierati in un grande tempio buddista, dove gli aspiranti samurai si esibiscono in combattimenti davanti ai selezionatori. Questi sono il capo della guarnigione Isami Kondo, il luogotenente Hijikata e Soji Okita. M. Rampin – L. Anconelli, “Gestire la crisi - Tecniche psicologiche e comunicative in emergenza”11/2/2011 Matteo Rampin - Luca Anconelli “Gestire la crisi - Tecniche psicologiche e comunicative in emergenza” Euro 25.00 Pag. 192 Formato 24x17 3 illustrazioni, 2 tabelle; bibliografia Copertina plastificata lucida Brossura cucita filo refe ISBN 88 - 89660-10-4 EAN 978 - 88 - 89660-10-2 Nella canzone “Il secondo secondo me” Michele Salvemini, più noto con il nome d’arte di “Caparezza” afferma che “il secondo album è quello più difficile, nella carriera di un artista”, il che vale in realtà non solo per un cantante, ma per chiunque produca un opera d’arte o di ingegno, sia uno stilista d’abbigliamento, uno scultore, un pittore o un regista cinematografico. Se infatti una “opera prima” ha successo qualcuno ne attribuirà il merito alla proverbiale “fortuna del principiante”, altri ad una fortunata coincidenza o alla intuizione del momento, Viceversa, in caso di risultati non esaltanti, si potrà sempre invocare a discolpa l’inesperienza e si avrà buon diritto a richiedere una prova di appello, in cui dimostrare effettivamente il proprio valore. Nell’uno e nell’altro caso insomma, è nella seconda occasione - più che nella prima - che si può davvero verificare se si ha di fronte un artista valido o un fenomeno temporaneo. |
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Marzo 2017
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