E' la stessa mente che guida la mente fuori strada; della mente non essere dimentico.[1] Munen-musho (senza scopo - senza idea) è il concetto buddista della "mente vuota", uno stato in cui sono assenti pregiudizi e catene di pensieri logici ed in cui si è pienamente presenti nel "qui e ora" in uno stato di totale attenzione a ciò che ci circonda ed al gesto che stiamo compiendo. Questo stato ci permette di superare anche le nostre peggiori paure, spesso frutto proprio del lavoro della mente, sino a raggiungere il traguardo prefissato. Così nella condizione di “mu-ga mu-shin” (non-io non-mente) non vi è neppure “lo spessore di un capello tra volontà e azione” e la disciplina della concentrazione della mente mira ad una cosa sola: al superamento dell’ “io che osserva”, giudica e condiziona con le sue paure, i suoi attaccamenti e le sue avversioni.[2]
(Da "Qu'est-ce que le Zen" AZI. Paris, 1995. Versione italiana curata da Emanuela Losi e Franco Chiambalero, Torino 1997) Lo Zen è una corrente giapponese del Buddhismo. Con il termine Zen ci si riferisce talvolta anche alla tradizione cinese da cui storicamente deriva. Zen è la pronunzia nipponica della parola cinese Chan. Questo termine, un prestito linguistico dalla lingua classica, fin dalla prima introduzione del buddhismo in Cina fu utilizzato per rendere foneticamente il termine sanscrito Dhyna che nell'insegnamento del Buddha indicava i graduali stati di coscienza caratterizzati da profonda comprensione che scaturiscono dall'esercizio del Samadhi, ossia la concentrazione meditativa. È infatti l'atto puro, l'azione diretta che lo Zen predilige, assieme a tutti quei modi di rapportarsi all'esperienza senza troppi vincoli culturali e dunque all'intuizione. (Traduzione e adattamento di “The devil’s dictionary of aikido”, di Stefan Schroeder) Forse qualcuno conoscerà “Il dizionario del Diavolo”, di Ambrose Bierce, una caustica raccolta di definizioni che mettevano alla berlina i pregiudizi e le ipocrisie della società contemporanea dell’autore, ma che rimangono validi ancora al giorno d’oggi. Come si suole dire, l’idea vanta innumerevoli tentativi di imitazione, e non poteva certo mancare una “versione” dedicata all’Aikido. La lettura potrebbe offendere i praticanti “duri & puri” mentre personalmente la consiglio a tutti coloro che amano così tanto l’Arte che praticano da avere la capacità di riderci su. (Traduzione e adattamento di: Ai-uchi: Mutual Destruction di Wayne Muromoto) Ai-uchi è un termine che presto o tardi ciascun praticante di Arti marziali giapponesi sentirà pronunciare; questo è spesso impiegato nel Kendo, ma è possibile udirlo anche in alcune Scuole di Karate. Per la maggior parte dei praticanti marziali, Ai-uchi indica la situazione in cui due avversari si colpiscono l’un l’altro nello stesso momento cosicché – in caso di competizioni – il punto conquistato viene annullato ad entrambi. Sasama Yoshihiko, in Zusetsu Nihon Budo Jiten (p. 1, Kashiwa Shobo Kabushikigaisha, Tokyo 1982), offre però una definizione più approfondita del termine, che si rifà ad un significato antico legato alla storia dei guerrieri nipponici. Titolo del Libro: Daito-ryu Aikibudo. Storia e tecnica Autore : Certa Antonino Editore: Luni Collana: Le vie dell'armonia. Quaderni tecnici , Nr. 51 Genere: arti ricreative. spettacolo. sport Argomento : Arti marziali Pagine: 222 Dimensioni mm: 243 x 173 x 18 ISBN-10: 8874351488 ISBN-13: 9788874351480 Dopo diverso tempo torniamo a parlare di carta stampata, presentando libro di sicuro interesse, ovvero “Daito-ryu Aikibudo – Storia e tecnica” di Antonino Certa shihan, stampato per i tipi della Luni Editrice. L’accoppiata Autore – Editore lascia presupporre subito un’opera interessante, e certo il lettore non rimane deluso. Molti paragrafi, sia storici sia in riferimento alle tecniche, sono stati tradotti da scritti originali di Takeda Tokimune (ultimo Soke della Scuola Daito) e da Kato Shigemitsu Soshi per arricchire un manuale che interesserà ogni appassionato delle arti marziali tradizionali giapponesi. La Cina è fonte di grande cultura ed è la culla del Tai Chi Chuan, antichissima arte marziale basata sul concetto taoista di Yin-Yang, l’eterna alleanza degli opposti, nato come sistema di autodifesa, si è trasformato nel corso dei secoli in una raffinata forma di esercizio per il benessere psicofisico. Il Tai Chi Chuan, ha dunque origini marziali, ma, per i suoi caratteristici movimenti lenti ed armoniosi che trasmettono calma e serenità rendendolo piuttosto simile ad una lenta danza, risulta difficile ai profani associare questa disciplina ad altre arti marziali tradizionalmente più aggressive. Queste caratteristiche rendono adatto il Tai Chi Chuan a tutte le età ed anche alle persone anziane e a coloro che avrebbero difficoltà a cimentarsi con esercizi fisicamente più impegnativi. Pur tuttavia, una pratica costante consente lo sviluppo di una notevole forza interiore con effetti benefici sulla salute generale e sullo spirito dei praticanti. Parlando di Arti marziali non si deve mai dimenticare che la loro nascita ed il loro sviluppo è dovuto alla necessità di difendersi con successo su un campo di battaglia (nel senso più ampio del termine). Lo studio e l’applicazione dei principi descritti nel “Go rin no sho” di Musashi Myamoto o nel “Sun Zu Bing Fa” anche nel campo commerciale o diplomatico stanno a testimoniare che se oggi è più difficile trovarsi ad affrontare un evento bellico propriamente detto, pure nella vita quotidiana non mancano i conflitti e la necessità di “gestire uno scontro”. Lo studio e la applicazione in Dojo dei concetti alla base dell’Arte marziale può essere così anche un valido strumento da impiegare – con i dovuti adattamenti - nella gestione dei rapporti interpersonali. Quando parliamo di “gestione di un conflitto”, uno degli argomenti più importanti da esaminare è sicuramente la “strategia”: se questa era ed è fondamentale nelle battaglie campali, altrettanto possiamo dire nel confronto personale; a sua volta la strategia consta di una serie di fattori, tutti più o meno decisivi a seconda dell’ambito di applicazione. Gli antichi latini esprimevano l’importanza del nome con il motto “nomen omen”, ovvero uno è quello che il nome significa. Per questo motivo i nomi propri di persona, di città e di interi popoli, quasi sempre richiamavano e richiamano, in maniera più o meno evidente, qualità quali forza, coraggio, fortuna, fedeltà, ecc. e non di rado – in molte civiltà – il vero nome non solo di una persona, ma anche di un luogo – veniva rivelato solo alle persone fidate, poiché si riteneva che “possedere” il vero nome di una persona o di una città significasse avere su questo un potere enorme. Così, la scelta del nome della nostra associazione è stata oggetto e motivo di riflessione e confronto, alla ricerca di un appellativo che ne esprimesse al meglio lo spirito, la storia e il carattere. Alla fine la scelta è caduta su “Fenice rossa” sostanzialmente per due motivi: uno “tecnico” ed uno più personale. |
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Marzo 2017
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