In aggiunta al daisho (Letteralmente “grande piccola”; con questo termine si indica la coppia di spade che costituivano l’armamento “di base” del samurai, una lunga ed una corta) i samurai spesso erano dotati di altre armi, semplici e facilmente celabili agli occhi dell’avversario. Queste erano usate quando non si era dotati di altre armi oppure, in qualche caso, quando era preferibile non uccidere o ferire gravemente l’attaccante. Le varie Ryu (Scuole) marziali del periodo Tokugawa (Detto anche periodo Edo, è il periodo che va approssimativamente dal 1603 al 1868) insegnavano frequentemente le modalità di impiego di una vasta gamma di armi corte facilmente occultabili nell’abbigliamento quotidiano e specificamente previste per la autodifesa. Sia i samurai che i cittadini comuni consideravano il sensu (ventaglio pieghevole) un importante accessorio di abbigliamento; solitamente tenuto in mano o infilato nella obi (cintura), il ventaglio pieghevole giocava un importante ruolo nella etichetta giapponese, specialmente nelle occasioni formali. Forse perché considerato come un oggetto comune, questo ventaglio venne trasformato in una efficace arma “da lato” apportandogli solo piccole modifiche. Nacque così il tessen (letteralmente “ventaglio di ferro”), che poteva essere realizzato o come un ventaglio pieghevole con stecche d’acciaio, o come un ventaglio fisso avente la forma di quello pieghevole ma realizzato in un unico pezzo di legno o acciaio.
(Traduzione ed adattamento dell'originale inglese: http://www.e-budokai.com/hibuki/tessen.htm)
In aggiunta al daisho (Letteralmente “grande piccola”; con questo termine si indica la coppia di spade che costituivano l’armamento “di base” del samurai, una lunga ed una corta) i samurai spesso erano dotati di altre armi, semplici e facilmente celabili agli occhi dell’avversario. Queste erano usate quando non si era dotati di altre armi oppure, in qualche caso, quando era preferibile non uccidere o ferire gravemente l’attaccante. Le varie Ryu (Scuole) marziali del periodo Tokugawa (Detto anche periodo Edo, è il periodo che va approssimativamente dal 1603 al 1868) insegnavano frequentemente le modalità di impiego di una vasta gamma di armi corte facilmente occultabili nell’abbigliamento quotidiano e specificamente previste per la autodifesa. Sia i samurai che i cittadini comuni consideravano il sensu (ventaglio pieghevole) un importante accessorio di abbigliamento; solitamente tenuto in mano o infilato nella obi (cintura), il ventaglio pieghevole giocava un importante ruolo nella etichetta giapponese, specialmente nelle occasioni formali. Forse perché considerato come un oggetto comune, questo ventaglio venne trasformato in una efficace arma “da lato” apportandogli solo piccole modifiche. Nacque così il tessen (letteralmente “ventaglio di ferro”), che poteva essere realizzato o come un ventaglio pieghevole con stecche d’acciaio, o come un ventaglio fisso avente la forma di quello pieghevole ma realizzato in un unico pezzo di legno o acciaio.
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“Quando vi ucciderete maestro?” di Antonio Franchini editore Marsilio, ISBN: 8831765086 Nato a Napoli nel 1958 Antonio Franchini ha cominciato molto presto a lavorare nell'editoria ed a tutt'oggi vive e lavora a Milano come editor della narrativa italiana per Mondadori. In questo libro di meno di 200 pagine pubblicato nel 1996 l’autore parla delle sue due grandi passioni, il combattimento e la letteratura, scoperte in gioventù e coltivate con il passare degli anni. Con buona pace della dicotomia corpo/spirito o - più brutalmente – di quella tra teoria e pratica, ancor più aggravata dalle nuove frontiere tecnologiche percui si può avere la “fortuna” di incontrare su forum di discussione telematica esperti che conoscono a menadito curriculum di tecniche o genealogie di Scuole marziali senza aver versato molto sudore su ring o tatami, così come può accadere di incocciare in vere e proprie “macchine da guerra” che non hanno la minima consapevolezza dei principi alla base dell’Arte praticata, l’autore spiega che il combattimento non è solo 'corpo' e la letteratura non è solo 'spirito' e che entrambi sono un continuo, appassionato scontro con il proprio limite. Perché, sia le discipline che insegnano a incrementare la forza fisica sia quelle volte a allargare il patrimonio culturale non nascondono un analogo destino di sopraffazione, due volontà di potenza tra cui è difficile istituire una gerarchia. Abbiamo già parlato del libro “Budo, la Via spirituale delle Arti marziali” di Werner Lind, riportiamo ora alcuni passaggi presenti al capitolo 16, che ha lo stesso titolo di questo articolo. Ovviamente non si tratterà di una pedissequa copiatura (anche perché il diritto d’autore non lo ammette...) quanto piuttosto di una citazione più o meno estesa, con qualche necessario adattamento e riduzione. Dojo kun viene usualmente tradotto come “regole del luogo dove si segue la Via” ed è una raccolta di cinque frasi che costituiscono una esemplificazione dei principi che dovrebbero guidare ogni praticante marziale. Comunemente i Dojo kun vengono associati alle Scuole di Karate, ma i principi che racchiude sono validi per qualunque Arte, tanto che nel prosieguo parleremo di Budo, piuttosto che di una Arte specifica. I cinque motti del Dojo kun terminano con Koto, rafforzativo imperativo del verbo impiegato, e cominciano con Hitotsu, che può essere tradotto come "per primo", "innanzitutto", sottolineando la importanza del seguito di ciascuna frase, ognuna delle quali illumina un particolare aspetto fisico e spirituale del percorso addestrativo del praticante, assumendosi il non facile compito di evitare sia la intellettualizzazione della pratica che la riduzione della stessa a mero atto fisico di forza. (traduzione e adattamento da http://www.e-budokai.com/hibuki/jutte.htm) Nonostante la pace stabilita dallo shogunato Tokugawa, la polizia feudale giapponese si trovava spesso ad affrontare situazioni critiche e dovette sviluppare in fretta nuove tecniche e attrezzature per fronteggiare la criminalità. In una società maschilista come quella del periodo Edo la competizione era feroce e con il rapido aumento delle interazioni tra le varie classi sociali e l’espandersi degli agglomerati urbani spesso le discussioni sfociavano in rissa. La giustizia era spesso sinonimo di violenza e l’ampia percentuale di popolazione armata faceva si che il minimo disaccordo sfociasse in un bagno di sangue. per mantenere il controllo, gli ufficiali di polizia ed i loro assistenti svilupparono molte armi e tecniche di arresto dei facinorosi, spesso armati e pronti a tutto. Tra queste c’era un bastone munito di ganci metallici per catturare i vestiti dei sospetti e immobilizzarli forzandoli al suolo; inoltre per catturare persone disarmate spesso venivano usati bastoni e randelli di legno. Una delle più originali armi della polizia di quel periodo fu senz’altro il jutte, un manganello di acciaio che deve la sua diffusione alla capacità di parare i fendenti di spade affilate come rasoi e di disarmare gli assalitori senza causargli gravi danni. Essendo essenzialmente un arma di difesa e costrizione, la lunghezza del jutte richiedeva a chi l’impiegava di essere molto vicino a chi doveva essere catturato. Un uncino o una forca, chiamata kagi e posizionata vicino all’impugnatura, consentiva al jutte di bloccare ed addirittura spezzare la lama di una spada, così come di colpire di punta o di afferrare i vestiti o le dita del sospetto, in maniera da disarmarlo o catturarlo senza gravi spargimenti di sangue, inoltre il suo impiego da parte delle forze di polizia finì per farlo considerare come un simbolo dello status di pubblico ufficiale. Seminario di Takemusu Aikido diretto da Paolo N. Corallini shihan. Con Simone Chierchini sensei, Francesco Corona, Giuseppe Scarnera, Mimmo Miolli e Gaetano Mancarelli
(traduzione e adattamento di: “Top 10 Common Tai Chi Errors” disponibile alla URL: http://taiji-europa.eu/index.php/tai-chi-taiji/basics/top-10-common-errors/) Quando impariamo il Tai Chi Chuan, possiamo risparmiare molto tempo se abbiamo una chiara conoscenza di cosa è sbagliato e di dove sono gli errori, concedendoci poi il tempo necessario per capire il modo migliore per correggerli. Sfortunatamente, è abbastanza comune vedere praticanti, anche da molto tempo, che ripetono sempre gli stessi sbagli. Provando invece a praticare con un reale senso di obiettività e “ascoltando” l’energia, possiamo metterci nelle condizioni migliori per scoprire quando le cose non sono come dovrebbero essere. Di seguito riportiamo una lista in cui sono riportati gli errori più comuni in cui incappano i praticanti. 1) Posizione: Assicuratevi che i vostri piedi siano alla ad una distanza tra loro pari alla larghezza delle spalle. Posizioni più strette indicano la necessità di adattare la postura di altre parti del corpo per mantenere un buon equilibrio. |
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