Da quando il cinema ha scoperto le arti marziali come mezzo per aumentare gli spettatori, molte pellicole cinematografiche e sceneggiati televisivi hanno visto protagonista il classico eroe che chiede di essere ammesso in una scuola segreta di Arti marziali, riuscendo a coronare il suo desiderio solo dopo lunghe ed impegnative prove a cui viene sottoposto durante un periodo di iniziazione in cui deve provare di essere all’altezza della Tradizione di cui chiede di fare parte. Il maestro è sempre riluttante ad insegnargli la sua Arte rara e segreta e così l’apprendistato si svolge in maniera drammatica, misteriosa e spesso dolorosa. In verità però nel caso della maggior parte delle ko-ryu (scuole di arti marziali classiche, esistenti prima dell’inizio dell’era Meiji nel 1868) la cosa era molto meno teatrale; prima di tutto, il tipico aspirante alla frequentazione di una Scuola di Arti marziali nell’era feudale era – tranne rare eccezioni – un membro della classe dei samurai. D’altronde un contadino, un commerciante o un borghese avevano assai poco tempo da dedicare all’apprendimento di tecniche di combattimento da impiegare in battaglia e, soprattutto, avevano ben poche ragioni per volerlo fare. Arti di combattimento non rigidamente strutturate in scuole, come ad esempio il karate di Okinawa o il kung-fu cinese non avevano sostanzialmente nessuna considerazione nel panorama delle discipline da combattimento giapponesi.
(traduzione e adattamento di “Keppan: The Blood Oath” di Dave Lowry, pubblicato sul n° 8 di “Furyu” - http://www.furyu.com/archives/issue8/furyu8.html
Da quando il cinema ha scoperto le arti marziali come mezzo per aumentare gli spettatori, molte pellicole cinematografiche e sceneggiati televisivi hanno visto protagonista il classico eroe che chiede di essere ammesso in una scuola segreta di Arti marziali, riuscendo a coronare il suo desiderio solo dopo lunghe ed impegnative prove a cui viene sottoposto durante un periodo di iniziazione in cui deve provare di essere all’altezza della Tradizione di cui chiede di fare parte. Il maestro è sempre riluttante ad insegnargli la sua Arte rara e segreta e così l’apprendistato si svolge in maniera drammatica, misteriosa e spesso dolorosa. In verità però nel caso della maggior parte delle ko-ryu (scuole di arti marziali classiche, esistenti prima dell’inizio dell’era Meiji nel 1868) la cosa era molto meno teatrale; prima di tutto, il tipico aspirante alla frequentazione di una Scuola di Arti marziali nell’era feudale era – tranne rare eccezioni – un membro della classe dei samurai. D’altronde un contadino, un commerciante o un borghese avevano assai poco tempo da dedicare all’apprendimento di tecniche di combattimento da impiegare in battaglia e, soprattutto, avevano ben poche ragioni per volerlo fare. Arti di combattimento non rigidamente strutturate in scuole, come ad esempio il karate di Okinawa o il kung-fu cinese non avevano sostanzialmente nessuna considerazione nel panorama delle discipline da combattimento giapponesi.
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La frase che da il titolo a questo articolo è un classico ed esprime l’arroganza con cui qualcuno che si crede – a torto o a ragione – superiore al proprio interlocutore, tenta di far valere le proprie supposte ragioni senza basarsi – spesso – su fatti concreti. Situazioni per certi aspetti simili le ritroviamo anche nel variegato mondo delle Arti marziali, quando sedicenti Maestri, occupati più di riempirsi di titoli altisonanti e variegati diplomi che a sudare sul tatami, pretendono dagli altri una incondizionata fiducia “a scatola chiusa”, senza dover dare dimostrazione pratica delle loro capacità. L’argomento, come si può facilmente intuire, è tra i più delicati e – per certi aspetti – non ha una soluzione univoca percui questo articolo non ha certo la velleità di indicare “linee guida” quanto piuttosto di stimolare una discussione in merito. Naturalmente molti Maestri (speriamo la gran parte!) sono effettivamente esperti e hanno validi motivi per non ingaggiare una “singolar tenzone” con uno sfidante scettico più o meno sconosciuto. La prima ragione è di tipo pratico – tradizionale, come sanno i praticanti di Arti marziali, in passato era vietato mostrare le tecniche in pubblico, per evitare che potessero essere “rubate” da una Scuola concorrente (ed in passato conoscere una tecnica in più dell’avversario poteva fare la differenza tra la vita e la morte). Naturalmente l’obiezione è facilmente prevedibile: oggi non ci sono più i Dojo arashi, le sfide tra praticanti di Scuole o discipline diverse volte proprio a stabilire la superiorità dell’una sulle altre, poi libri, videocassette e DVD hanno forse mostrato (forse...) tutto il mostrabile. Se ti ami, osservati. Veglia durante una parte della notte. Prima di mostrare il cammino ad altri consolidalo in te, se vuoi evitare la sofferenza. Pratica ciò che predichi. Prima di cercare di correggere gli altri fa una cosa più difficile: correggi te stesso. Tu sei il tuo solo maestro. Chi altro può guidarti? Diventa padrone di te stesso e scopri il tuo maestro interno. L'inconsapevole è spezzato dal male che lui stesso fa, come una pietra è spezzata da un diamante. E' soffocato dal male che lui stesso fa come un albero è soffocato da un rampicante. Da sé si riduce in uno stato che solo il suo peggior nemico potrebbe augurargli. E' difficile fare ciò che ci è veramente d'aiuto. E' facile fare del male, fare ciò che ci nuoce. L'inconsapevole si fa beffe della saggezza, deride coloro che seguono la via della consapevolezza e si perde in false dottrine. Il frutto delle sue azioni è la sua rovina, come avviene per la canna di khattaka, che muore dopo aver fruttificato. Uno degli eventi più conosciuti della quotidianità giapponese è sicuramente la cerimonia del tè, che da secoli ha trasceso il mero atto di dissetarsi per assumere un particolare valore estetico e spirituale. L’arte di preparare e servire il tè è conosciuta come Cha-do o Sa-do (Via del té) oppure come Cha no yu, che significa letteralmente “acqua calda per il té”. Il tè arrivò in Giappone insieme al buddhismo dalla vicina Cina nella prima metà del VI secolo, impiegato dai monaci per mantenersi vigili e svegli durante la meditazione. Ikkyuu (1394-1481), una delle figure fondamentali del buddhismo, diffuse il tè anche al di fuori della pratica meditativa e dai monaci zen l'usanza di bere tè si diffuse ai samurai, che erano allora la classe dominante. Il tè, che prima era apprezzato per le sue qualità medicinali, diventò una bevanda per persone raffinate da gustare per il suo aroma e gusto. Così nacque, a partire dal XIV secolo, il toucha, un gioco di società nel quale dieci tazze di tè venivano preparate con quattro diverse qualità di tè e gli ospiti dovevano indovinare la provenienza di ogni tazza, con una penitenza per il perdente. . Sul nostro bollettino sono apparsi già diversi articoli che trattavano di come effettuare un buon attacco ma, data l’importanza dell’argomento, è senz’altro utile ed opportuno ritornare a parlarne. Capita frequentemente di vedere, durante la pratica, che uke attacchi non al massimo delle sue possibilità, riservandosi una specie di “seconda occasione”, falsando osì sia la sua azione che quella di tori, che dovrebbe invece sfruttare anche l’energia di uke per eseguire correttamente la sua tecnica. In effetti quello dell’attacco è un concetto difficile da fare proprio, per tutta una serie di motivi che proveremo di seguito a riassumere. Intanto è bene ricordare che le nostre Arti derivano da quelle tradizionali giapponesi, sperimentate ed applicate per secoli sui campi di battaglia da soldati che avevano la vera forza non tanto nella spada e nella destrezza manuale con cui sapevano maneggiarla, ma nella fermezza interiore e nel distacco. Un samurai era morto a sé stesso, non aveva domani, non aveva ieri, non aveva il presente, aveva solo il “qui e ora”, e non a caso nello “Hagakure” viene deplorata proprio la tendenza, da parte delle nuove generazioni di samurai, ad accumulare beni e denaro per la vecchiaia, condizione che presupponeva un minore impegno in servizio. In battaglia il samurai era il peggior nemico che si potesse incontrare, perchè non aveva niente da perdere, a cominciare dalla cosa più preziosa, la sua stessa vita. Il senso di questa disposizione d’animo è riassunto in una massima resa celebre dal libro "Lo zen ed il tiro con l'arco": "Un colpo, una vita". Tutta una vita spesa per preparare e attendere un unico colpo decisivo; tutta una vita salvata o recisa da un unico, definitivo colpo di spada. Più passa il tempo, più si radica la convinzione che con l’ottimo Gianluca Zanini esistano tanti di quei punti in comune da non ritenere esagerato il considerarlo un “fratello”. A lui, come dichiaro spesso, devo la mia ammirazione per il M° Paulo Fambri e la sua salace scrittura, con lui scopro oggi un comune apprezzamento per lo Zarathustra di Nietzsche, con lui in primis mi piace condividere questo brano, tratto proprio dal quest’opera che rimane uno dei libri più importanti della mia vita. Il motto di questo articolo è Icchou-ittan che letteralmente significa “un lungo, un corto” ed in una accezione più ampia l’espressione viene impiegata per evidenziare che una situazione presenta sia vantaggi che svantaggi, come ad esempio:Kono keikaku wa doremo icchou-ittan ga aru (Ciascuno dei due progetti ha sia meriti che demeriti). Lady Snowblood Titolo originale: Shurayukihime Lingua originale: giapponese Paese: Giappone Anno: 1973 Durata: 97 min Regia: Fujita Toshiya Capita che campioni di incassi ai botteghini cinematografici abbiano nel loro DNA “ispirazioni” o veri e propri plagi di opere precedenti, a cui magari aveva arriso minor fortuna di pubblico. Esempio eclatante in questo senso è “I sette samurai” di Kurosawa, da cui Sergio Leone ha tratto l’dea del suo film western “I magnifici sette”. In tempi più recenti abbiamo invece il “Kill Bill” di Quentin Tarantino che, per gli amanti della cinematografia orientale, è un florilegio di citazioni e richiami più o meno plateali. Il regista americano non ha mai nascosto la sua passione per un certo tipo di film, e per certi aspetti “Kill Bill” è stato forse il suo omaggio ad un certo tipo di cinematografia, a volte a torto trascurata e snobbata. Giusto per fare un paio di esempio la tuta gialla di Uma Thurman nel primo film richiama in maniera smaccata quella di Bruce Lee ne “L’ultimo combattimento di Chen” e il personaggio di Hattori Hanzo, lo spadaio ritiratosi a vita privata per gestire un bar è interpretato da Sonny Chiba, noto attore di film e telefilm di genere marziale. Takemusu Aikido vol. 6 - Edizione Speciale Budo Autore: Morihiro Saito Codice: SAI 08596/91 ISBN: 9788827221525 Pagine: 168 Illustrazioni: 450 foto Formato: 17x24 Prezzo: € 18,90 Questo volume è il commentario di Saito Morihiro sensei sul manuale di allenamento di Morihei Ueshiba pubblicato privatamente nel 1938, con un’introduzione di Stanley A. Pranin e di Paolo N. Corallini e rappresenta - per certi aspetti - una contraddizione ed una conferma, situazioni non ignote a chi pratica Arti (marziali e non) di provenienza orientale. Quante volte, ad una domanda o a una affermazione, ci siamo sentiti dire: "E' così, ma non è così"? con la consapevolezza che la risposta era vera, anche se non riuscivamo a comprenderla sino in fondo? Bene, questo volume rappresenta appunto l'ennesima situazione in cui una condizione simile si ripropone. Spieghiamoci meglio: pur riproducendo con la massima accuratezza possibile le tecniche comprese nell'unico manuale redatto da Ueshiba Morihei, Fondatore dell'Aikido, e destinato ai suoi allievi più vicini, è praticamente impossibile "imparare" l'Aikido attraverso questo volume. |
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Marzo 2017
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