Una delle più famose Scuole di scherma tradizionale giapponese è senz’altro la Ono ha Itto-ryu creata, intorno al 1580, da Ono Tadaaki (1565-1628). Essa è una branca della scuola Itto-ryu, ed è una tra quelle che maggiormente hanno influenzato il Kendô moderno, sia dal punto di vista tecnico che filosofico/spirituale. La Ono ha Itto-ryu è praticata, come vuole la tradizione giapponese, nella forma dei kumi-tachi, forme preordinate di combattimento con la spada in cui vengono utilizzati dei robusti bokken o bokuto (letteralmente: “spada in legno”), ovvero imitazioni di legno della katana, di cui conservano la forma, la bilanciatura e, nel caso di alcune scuole, anche il peso. Nella pratica della Itto ryu si adottò un bokken particolarmente robusto e non molto curvo poiché la tecnica principale di questa scuola è "kiriotoshi", che prevede impatti particolarmente violenti tra le spade. Il legno di costruzione più comune è la quercia, ma frassino e ciliegio sono parimente utilizzati. Ricercatissimi, e costosi, sono i bokuto in biwa (nespolo giapponese), particolarmente apprezzati dai praticanti per il colore naturale, la robustezza, lo straordinario bilanciamento.
Una delle più famose Scuole di scherma tradizionale giapponese è senz’altro la Ono ha Itto-ryu creata, intorno al 1580, da Ono Tadaaki (1565-1628). Essa è una branca della scuola Itto-ryu, ed è una tra quelle che maggiormente hanno influenzato il Kendô moderno, sia dal punto di vista tecnico che filosofico/spirituale. La Ono ha Itto-ryu è praticata, come vuole la tradizione giapponese, nella forma dei kumi-tachi, forme preordinate di combattimento con la spada in cui vengono utilizzati dei robusti bokken o bokuto (letteralmente: “spada in legno”), ovvero imitazioni di legno della katana, di cui conservano la forma, la bilanciatura e, nel caso di alcune scuole, anche il peso. Nella pratica della Itto ryu si adottò un bokken particolarmente robusto e non molto curvo poiché la tecnica principale di questa scuola è "kiriotoshi", che prevede impatti particolarmente violenti tra le spade. Il legno di costruzione più comune è la quercia, ma frassino e ciliegio sono parimente utilizzati. Ricercatissimi, e costosi, sono i bokuto in biwa (nespolo giapponese), particolarmente apprezzati dai praticanti per il colore naturale, la robustezza, lo straordinario bilanciamento.
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Nell’immaginario collettivo occidentale (e non solo) il personaggio maschile più conosciuto del Giappone è senz’altro il samurai mentre in campo femminile questa notorietà appartiene senza dubbio alla geisha. Molte delle cose che si sanno (e che si crede di sapere...) sono apprese tramite romanzi o film, che spesso hanno offerto una immagine tanto romanzata quanto poco aderente alla realtà storica della comunque variegata quotidianità di queste figure. Nei mesi scorsi tocco a Tom Cruise ed al suo “L’ultimo samurai” riportare l’attenzione sui famosi guerrieri nipponici; in queste settimane è invece un altra pellicola cinematografica a rinnovare l’interesse intorno alla affascinante ed enigmatica figura della geisha. Prima di dire (o meglio, tentare di dire, data la vastità dell’argomento...) chi sono e furono le geisha è bene sgombrare subito il campo da un equivoco: non erano, se non in qualche raro caso, delle prostitute, ma piuttosto delle “dame di compagnia” che allietavano le serate e gli incontri di facoltosi possidenti o uomini d’affari. Le scuole tradizionali giapponesi di arti da combattimento avevano un curriculum molto ampio e disparato, dovendo fornire ai soldati la capacità di affrontare e gestire al meglio le più disparate situazioni che potessero presentarsi sui campi di battaglia. Non deve così stupire che insieme all’addestramento all’uso delle armi più comuni quali arco, spada, lancia, bastone, alabarda e jutte, nei Dojo venisse praticato anche l’impiego e la difesa da armi meno convenzionali, quali il kusari-gama, gli shuriken o il tessen. Inoltre il bu-jutsu doveva necessariamente incorporare metodi e conoscenze che, pur non essendo legate strettamente al combattimento in senso stretto, erano comunque indispensabili al samurai sul campo di battaglia: Suei-jutsu, l’arte di nuotare con l’armatura indosso, ba-jutsu, le tecniche di cavalcatura, noroshi-jutsu, l’uso dei fuochi di segnalazione, chikujo-jutsu, il modo di fortificare una posizione, senjo-jutsu, le tecniche di schieramento campale delle truppe, hojo-jutsu, le tecniche per legare un nemico catturato. Quest’ultimo jutsu, detto anche nawa-jutsu era l’arte del maneggio di corde e lacci, da impiegarsi per vari scopi. Le vacanze estive hanno, tra i loro vantaggi, quello di offrire un po' di tempo libero in più per gustarsi con calma libri e film messi un po' da parte. Tra le tante proposte, ci piace consigliare quella che riteniamo una impedibile chicca per gli amanti della cinematografia orientale: si tratta di “Dersu Uzala – Il piccolo uomo delle grandi pianure” un film che ha più di trent'anni ma che, come tutti i capolavori, è senza tempo e senza età.
La trama è presto detta: all'inizio del secolo, il capitano russo Arseniev conduce una piccola spedizione di ricognizioni geo-grafiche ai confini con la Cina, nella vasta e inesplorata zona del fiume Ussuri. Una sera, mentre gli uo-mini riposano accanto al fuoco, si presenta Dersu Uzala, un cacciatore anziano della tribù dei Gold. E' un tipo bizzarro, ma saggio, esperto della regione e privo della famiglia, toltagli da una epidemia di peste. Invitato a fungere da guida, Dersu accetta e si dimostra molto utile: insegna a tutti i segreti della natura e salva la vita ad Arseniev una notte in cui vengono colti da una tempesta di vento mentre sono soli e sperduti in una palude. A sua volta il capitano salva Dersu dalle rapide di un torrente. Separatisi con dispiacere, i due amici si ritrovano nel corso di una seconda spedizione, diversi anni dopo la prima. |
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Marzo 2017
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