La frase che da il titolo a questo articolo è un classico ed esprime l’arroganza con cui qualcuno che si crede – a torto o a ragione – superiore al proprio interlocutore, tenta di far valere le proprie supposte ragioni senza basarsi – spesso – su fatti concreti. Situazioni per certi aspetti simili le ritroviamo anche nel variegato mondo delle Arti marziali, quando sedicenti Maestri, occupati più di riempirsi di titoli altisonanti e variegati diplomi che a sudare sul tatami, pretendono dagli altri una incondizionata fiducia “a scatola chiusa”, senza dover dare dimostrazione pratica delle loro capacità. L’argomento, come si può facilmente intuire, è tra i più delicati e – per certi aspetti – non ha una soluzione univoca percui questo articolo non ha certo la velleità di indicare “linee guida” quanto piuttosto di stimolare una discussione in merito. Naturalmente molti Maestri (speriamo la gran parte!) sono effettivamente esperti e hanno validi motivi per non ingaggiare una “singolar tenzone” con uno sfidante scettico più o meno sconosciuto. La prima ragione è di tipo pratico – tradizionale, come sanno i praticanti di Arti marziali, in passato era vietato mostrare le tecniche in pubblico, per evitare che potessero essere “rubate” da una Scuola concorrente (ed in passato conoscere una tecnica in più dell’avversario poteva fare la differenza tra la vita e la morte). Naturalmente l’obiezione è facilmente prevedibile: oggi non ci sono più i Dojo arashi, le sfide tra praticanti di Scuole o discipline diverse volte proprio a stabilire la superiorità dell’una sulle altre, poi libri, videocassette e DVD hanno forse mostrato (forse...) tutto il mostrabile.
Rimane però una seconda motivazione: esibire tecniche potenzialmente letali ad un pubblico impreparato rischia di offrire dei pericolosi strumenti a chi non ha la capacità di gestirli ed impiegarli in maniera ottimale. Non a caso per condurre un automobile o detenere un arma servono particolari autorizzazioni, rilasciate solo dopo una sufficiente preparazione ed un esame della idoneità del candidato. Superiamo anche questa obiezione e facciamo il caso di un incontro interstile, in cui si suppone che i partecipanti siano più o meno sufficientemente in grado di “gestire” una tecnica subita o applicata. Come si vede partiamo da un presupposto più ipotizzato che verificato, poiché non è detto che un karateka sappia subire senza danni la proiezione di un judoka così come non è detto che un praticante di Tai Chi Chuan sappia fare fronte ad un boxeur aggressivo e determinato. Inoltre, aldilà della capacità fisica di “gestione” del confronto/scontro, entra in ballo una variabile poco valutabile a priori ma notevolmente determinante l’esito dell’evento, ovvero l’intenzione dei due protagonisti. Esaminiamo una serie di possibili scenari, definendo per comodità “attaccante” colui che vuole mettere alla prova il “difensore” e ipotizziamo – per cominciare – che l’attaccante sia molto determinato e spavaldo, mentre il difensore, conscio della pericolosità delle tecniche, limiti la sua azione, procedendo come si suole dire “col freno a mano tirato”.
Se non parliamo di campioni allora in una situazione di "confronto" può accadere che il tizio che sfida “sta al gioco" senza troppo impegnarsi ed il Maestro che e' più bravo fa bella figura (Poco probabile, perché in questo caso in chi attacca non sarebbe sorto il desiderio della sfida); Più probabile è che il tizio che sfida non sta al gioco ma pur essendo partito con buone intenzioni si fa prendere la mano e piuttosto che cedere e “darla vinta” inizia a violare le regole, creando una situazione imbarazzante da cui – come detto – almeno uno dei due protagonisti rischia di uscirne malconcio, così come è facile che il tizio “che sfida" parta già con l'idea di violare le regole e “giocare sporco” e in questo caso il rischio è che la cosa finisca male per entrambi. Ecco quindi che e' molto meglio non innescare situazioni che sfociano in quello che un buon Maestro dovrebbe insegnare ad evitare. ed è per questo che un buon Maestro dimostra le tecniche con i propri allievi, non perché questi fingono di volare al primo colpo d'aria ma perché così esclude a priori un eventuale atteggiamento di ostilità (anche se se ne crea uno di sottomissione, ma questo è un problema diverso) e crea una situazione nella quale ognuno può apprendere qualcosa, l'unica situazione didattica dove e' possibile una crescita in funzione delle proprie capacità/volontà. Naturalmente ogni medaglia ha il suo rovescio e capita che qualche “maestro” si sottragga alla “prova sul campo” delle proprie abilità adducendo come motivazione proprio la pericolosità delle tecniche. alimentando – in buona o cattiva fede - il rischio di avere una componente di illusione nei riguardi delle proprie effettive capacità tanto che nel libro “L'arte del combattere” del Maestro Kenji Tokitsu si parla proprio di come paradossalmente l'arte del combattere venga trasmessa, da molti Maestri, senza combattere, ovvero senza impiegare in maniera efficace e realistica le tecniche insegnate. E’ infatti in questo il funto focale della questione: se è giusta e comprensibile la ritrosia e la prudenza nel mostrare al primo che passa la propria abilità, sarebbe bene che un Maestro che vanta un certo tipo di abilità, periodicamente si “metta in gioco” con i propri allievi e/o con praticanti con cui c’è reciproca stima e rispetto per verificare l'efficacia del proprio metodo, dei propri progressi, della propria abilità, dando così prova di "onestà" verso i propri allievi e verso sé stesso