Si ripaga male il maestro, se si rimane sempre scolari.
Voi mi venerate: ma se la vostra venerazione un giorno cadesse? Guardatevi, che non vi schiacci una statua!
Voi dite di credere a Zarathustra? Ma che importa Zarathustra? Voi siete i miei fedeli, ma che importano tutti i fedeli!
Non vi eravate ancora cercati: e trovaste me. Così fanno tutti i fedeli, perciò ogni fede è di così poco conto.
Ora vi ordino di perdermi e di trovarvi; e solo quando voi tutti mi avrete rinnegato, tornerò in mezzo a voi…
(Federico Nietzsche, in “Così parlò Zarathustra”, " I discorsi di Zarathustra": "Della virtù che dona", 3)
Orbene, aldilà del grado, quando un allievo è “pronto”, non solo può, ma a mio avviso “DEVE” insegnare, sia per “restituire” alla Scuola quanto ha ricevuto, sia perché insegnando si impara tantissimo. Gli incontri periodici col proprio Maestro, servono ad acquisire particolari da raffinare durante la pratica abituale ed a mantenere integro quel cordone ombelicale del “I shin de shin”.
Se si rimane sempre sotto le ali della chioccia di turno si fa un pessimo favore alla Scuola, al Maestro ed a se’ stessi.
Ovviamente la domanda è: quando uno è pronto?
Lo “sente” lui e lo stabilisce il Maestro, anche qui non è sempre questione di grado.
Sia chiaro, parlo di chi poi prosegue un’ approfondimento personale lungo il solco della Scuola, non dell’autonominato Soke di turno che si autoconcede il decimo dan e fonda una sua Ryu-ha nuova di pacca.
Mi si diceva che in Giappone, dopo il secondo dan (ma ad uchideschi che vivevano ogni giorno a contatto col Maestro) veniva “imposto” di lasciare il tatami e far crescere nuovi rami sul tronco della Scuola.
Io sono in una situazione un po’ diversa, ho dovuto fare di necessità virtù, vedo i miei Maestri sempre troppo poco e soffro non poco di tutto ciò, ma probabilmente così doveva essere e così è.