Questo principio è stato formulato dal M° Funakoshi e viene illustrato dello Shoto Nijukun all’ottavo posto. Esso vuole insegnare che un praticante di arti marziali non dovrebbe pensare che l’esercizio della tecnica nel Dojo sia più importante dell’esercizio della sua condotta interna nella quotidianità. Molti allievi si concentrano sulla tecnica, ricoprendo questa la massima importanza ai loro occhi, e tralasciano l’esercizio del comportamento. In tal modo omettono di riconoscere importanti nessi nell’esercitazione del Budo e, mentre combattono in vista dell’auspicato progresso, mancano il senso della Via. Guardano presuntuosamente dall’alto a ciò che considerano di scarso rilievo e non si accorgono che in tal modo danno luogo ad una condotta che impedisce il loro progresso nella Via.
(Non pensare che il Karate si esplichi solo nel Dojo)
Questo principio è stato formulato dal M° Funakoshi e viene illustrato dello Shoto Nijukun all’ottavo posto. Esso vuole insegnare che un praticante di arti marziali non dovrebbe pensare che l’esercizio della tecnica nel Dojo sia più importante dell’esercizio della sua condotta interna nella quotidianità. Molti allievi si concentrano sulla tecnica, ricoprendo questa la massima importanza ai loro occhi, e tralasciano l’esercizio del comportamento. In tal modo omettono di riconoscere importanti nessi nell’esercitazione del Budo e, mentre combattono in vista dell’auspicato progresso, mancano il senso della Via. Guardano presuntuosamente dall’alto a ciò che considerano di scarso rilievo e non si accorgono che in tal modo danno luogo ad una condotta che impedisce il loro progresso nella Via.
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(Traduzione ed adattamento di “Without Hesitation” del Ven. Anzan Hoshin roshi - http://www.wwzc.org/book/zanshin) Zanshin si può tradurre come “la mente che rimane” oppure “la mente senza residui” ed è la mente della azione completa. Questo è il momento del Kyudo (arcieria giapponese) in cui la freccia è stata appena scoccata, è il “Om makurasai sowaka” nella pratica Zen dello oryoki (pranzo comune) in cui si beve l’acqua di risciacquo; quando si passeggia è il momento in cui il peso è tutto su un piede e comincia a muoversi l’altro piede, nella respirazione è quando è compiuta la inspirazione o la espirazione, nella vita è questa vita. Zanshin significa seguire completamente, senza lasciare traccia, significa ogni cosa, completamente, così come è. Quando corpo, respiro, parola e mente sono rotti l’uno dall’altro e sparpagliati in concetti e strategie, allora nessuna loro vera azione può rivelarli. (Traduzione e adattamento dell’articolo disponibile online in http://www.e-budokai.com/hibuki/yawara.htm) Molte delle Arti marziali classiche giapponesi che impiegano armi sono state originate da niente di più che dall’adattamento alle necessità di combattimento di tecniche ed attrezzi di uso comune da parte dei contadini durante l’era feudale. Essendo proibito per legge ai cittadini il portare spade come i samurai, questi adottarono frequentemente armi alternative per la loro difesa personale. Questo spesso includeva l’uso creativo di oggetti comuni che potevano essere impugnati. Questi erano spesso chiamati “mijikimono”, che letteralmente può tradursi come “oggetto piccolo, disponibile, pronto all’uso”. Pipe da tabacco, coperchi di recipienti e perfino spilloni decorativi per capelli erano usati per scopi di autodifesa. Le scuole di jujutsu spesso compresero nel loro curriculum l’impiego di armi facilmente facilmente celabili nell’abbigliamento, chiamate “hibuki”, termine che può essere tradotto come “arma segreta” o “arma nascosta”; una tra le più popolari fu sicuramente lo “yawara-bo”, a volte indicato semplicemente come yawara. Il kanji “yawara” significa “flessibilità” oppure “allontanare”; lo stesso kanji si può pronunciare come “ju” nei termini come “judo” o “ju-jutsu” mentre “bo”, il secondo kanji, significa semplicemente “bastone”. Edizione: 2006, 126 pagine, brossura Traduttore: Origlia L. Editore : Feltrinelli (collana Universale economica) Yukio Mishima era convinto che la verità può essere raggiunta solo attraverso un processo intuitivo in cui pensiero e azione si trovano uniti. Questa filosofia di vita gli derivava dal pensiero di Wang Yang Ming (1475-1529) e dall'etica dei samurai che a esso si ispirava. L'ideologia dei guerrieri antichi era, per Mishima, l'essenza stessa della giapponesità, della sua natura più vera. Alla fine degli anni sessanta, egli risolse o credette di risolvere i dilemmi esistenziali, che aveva rappresentato nei suoi romanzi, con una scelta para-militare: contrapponendo il linguaggio della carne al linguaggio delle parole. Senza solide basi, nessun edificio sta in piedi. http://store.aikidojournal.com/video-morihiro-saito-demonstrates-tai-no-henko-subtitled/
(Traduzione ed adattamento di “Uchidachi & Shidachi” di Nishioka Tsuneo, disponibile presso http://koryu.com/library/tnishioka1.html) L’articolo seguente è la traduzione di un capitolo del libro di Nishioka Tsuneo intitolato “Budo-teki na Mono no Kangaekata: Shu, Ha, Ri” (Budo Via del Pensiero: Shu, Ha, Ri). La traduzione dal giapponese è spesso problematica a causa della ambiguità propria dello stile tradizionale di scrittura dei saggi nipponici. Con l’obbiettivo di chiarire le idee dell’autore e di presentare al meglio il suo pensiero, il testo originale è stato arricchito con una serie di conversazioni personali avute con altri autori, con lo scopo di trasmettere la sensazione dell’insegnamento trasmesso dal maestro al discepolo. Si noti che in questo articolo i suffissi –do (Via) e –jutsu (abilità o pratica) sono usati nella accezione giapponese, che non fa una distinzione netta e precisa tra i due termini. In particolare l’autore non ritiene che questi rappresentino due entità separate, quanto differenti aspetti di una singola realtà, che viene a volte definita Budo, altre volte Bujutsu, percui quando nell’articolo seguente varrà impiegato l’uno o l’altro termine, questo dovrà intendersi come comprensivo sia della definizione relativa tanto alle arti classiche (Ko Ryu) quanto a quelle moderne (Gendai Budo). L’articolo comincia con una disanima del concetto giapponese di “Rei”, termine che presenta una notevole difficoltà di traduzione; anche se infatti può essere tradotto come “decoro”, “etichetta”, “cortesia”, “educazione”, nessuno di questi termini corrisponde completamente al concetto giapponese, così si è preferito lascialo non tradotto, immaginandolo come la qualità e l’essenza delle corrette relazioni tra individui. Diane Skoss (traduttrice) ------------------------------------------------------------------------ Il cuore del bujutsu è il “rei” ed è responsabilità dell’insegnante trasmettere questo concetto agli allievi. Se ciò non avviene, questi ultimi possono tenere comportamenti scorretti e perdere il vero significato dell’addestramento. Sfortunatamente, al giorno d’oggi ci sono tanti esempi di abuso di potere nel Budo giapponese e solo pochi maestri insegnano correttamente i principi del Budo. il Rei nel Budo è diventato artificiale, somigliando alla gerarchia militare nipponica “vecchio stile”. Il vero significato del Rei non è più espresso e vediamo preservata solo la parte peggiore delle tradizioni e cultura giapponesi, cosa che rende necessario trovare un modo per cambiare questa situazione. Il Bujutsu è guidato dal Rei e l’istruttore agisce in maniera da condurre idealmente i suoi studenti verso un traguardo più elevato ma alcune persona, anche abili o in possesso di un grado elevato, mettono da parte ciò che dovrebbero aver imparato circa il Rei. Coloro i quali omettono di praticare così diligentemente da migliorare lo spirito così come migliorano la tecnica è come se dimenticassero l’umiltà del vero Rei e finiscono per diventare irrispettosi e orgogliosi. (Traduzione ed adattamento dell'originale inglese: http://www.e-budokai.com/hibuki/tessen.htm) In aggiunta al daisho (Letteralmente “grande piccola”; con questo termine si indica la coppia di spade che costituivano l’armamento “di base” del samurai, una lunga ed una corta) i samurai spesso erano dotati di altre armi, semplici e facilmente celabili agli occhi dell’avversario. Queste erano usate quando non si era dotati di altre armi oppure, in qualche caso, quando era preferibile non uccidere o ferire gravemente l’attaccante. Le varie Ryu (Scuole) marziali del periodo Tokugawa (Detto anche periodo Edo, è il periodo che va approssimativamente dal 1603 al 1868) insegnavano frequentemente le modalità di impiego di una vasta gamma di armi corte facilmente occultabili nell’abbigliamento quotidiano e specificamente previste per la autodifesa. Sia i samurai che i cittadini comuni consideravano il sensu (ventaglio pieghevole) un importante accessorio di abbigliamento; solitamente tenuto in mano o infilato nella obi (cintura), il ventaglio pieghevole giocava un importante ruolo nella etichetta giapponese, specialmente nelle occasioni formali. Forse perché considerato come un oggetto comune, questo ventaglio venne trasformato in una efficace arma “da lato” apportandogli solo piccole modifiche. Nacque così il tessen (letteralmente “ventaglio di ferro”), che poteva essere realizzato o come un ventaglio pieghevole con stecche d’acciaio, o come un ventaglio fisso avente la forma di quello pieghevole ma realizzato in un unico pezzo di legno o acciaio. “Quando vi ucciderete maestro?” di Antonio Franchini editore Marsilio, ISBN: 8831765086 Nato a Napoli nel 1958 Antonio Franchini ha cominciato molto presto a lavorare nell'editoria ed a tutt'oggi vive e lavora a Milano come editor della narrativa italiana per Mondadori. In questo libro di meno di 200 pagine pubblicato nel 1996 l’autore parla delle sue due grandi passioni, il combattimento e la letteratura, scoperte in gioventù e coltivate con il passare degli anni. Con buona pace della dicotomia corpo/spirito o - più brutalmente – di quella tra teoria e pratica, ancor più aggravata dalle nuove frontiere tecnologiche percui si può avere la “fortuna” di incontrare su forum di discussione telematica esperti che conoscono a menadito curriculum di tecniche o genealogie di Scuole marziali senza aver versato molto sudore su ring o tatami, così come può accadere di incocciare in vere e proprie “macchine da guerra” che non hanno la minima consapevolezza dei principi alla base dell’Arte praticata, l’autore spiega che il combattimento non è solo 'corpo' e la letteratura non è solo 'spirito' e che entrambi sono un continuo, appassionato scontro con il proprio limite. Perché, sia le discipline che insegnano a incrementare la forza fisica sia quelle volte a allargare il patrimonio culturale non nascondono un analogo destino di sopraffazione, due volontà di potenza tra cui è difficile istituire una gerarchia. Abbiamo già parlato del libro “Budo, la Via spirituale delle Arti marziali” di Werner Lind, riportiamo ora alcuni passaggi presenti al capitolo 16, che ha lo stesso titolo di questo articolo. Ovviamente non si tratterà di una pedissequa copiatura (anche perché il diritto d’autore non lo ammette...) quanto piuttosto di una citazione più o meno estesa, con qualche necessario adattamento e riduzione. Dojo kun viene usualmente tradotto come “regole del luogo dove si segue la Via” ed è una raccolta di cinque frasi che costituiscono una esemplificazione dei principi che dovrebbero guidare ogni praticante marziale. Comunemente i Dojo kun vengono associati alle Scuole di Karate, ma i principi che racchiude sono validi per qualunque Arte, tanto che nel prosieguo parleremo di Budo, piuttosto che di una Arte specifica. I cinque motti del Dojo kun terminano con Koto, rafforzativo imperativo del verbo impiegato, e cominciano con Hitotsu, che può essere tradotto come "per primo", "innanzitutto", sottolineando la importanza del seguito di ciascuna frase, ognuna delle quali illumina un particolare aspetto fisico e spirituale del percorso addestrativo del praticante, assumendosi il non facile compito di evitare sia la intellettualizzazione della pratica che la riduzione della stessa a mero atto fisico di forza. |
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