editore Marsilio, ISBN: 8831765086
Nato a Napoli nel 1958 Antonio Franchini ha cominciato molto presto a lavorare nell'editoria ed a tutt'oggi vive e lavora a Milano come editor della narrativa italiana per Mondadori. In questo libro di meno di 200 pagine pubblicato nel 1996 l’autore parla delle sue due grandi passioni, il combattimento e la letteratura, scoperte in gioventù e coltivate con il passare degli anni.
Con buona pace della dicotomia corpo/spirito o - più brutalmente – di quella tra teoria e pratica, ancor più aggravata dalle nuove frontiere tecnologiche percui si può avere la “fortuna” di incontrare su forum di discussione telematica esperti che conoscono a menadito curriculum di tecniche o genealogie di Scuole marziali senza aver versato molto sudore su ring o tatami, così come può accadere di incocciare in vere e proprie “macchine da guerra” che non hanno la minima consapevolezza dei principi alla base dell’Arte praticata, l’autore spiega che il combattimento non è solo 'corpo' e la letteratura non è solo 'spirito' e che entrambi sono un continuo, appassionato scontro con il proprio limite. Perché, sia le discipline che insegnano a incrementare la forza fisica sia quelle volte a allargare il patrimonio culturale non nascondono un analogo destino di sopraffazione, due volontà di potenza tra cui è difficile istituire una gerarchia.
E’ questo, un libro che parla di amore, di un amore tormentato e sofferto, con le sue gioie e le sue illusioni, le sue delusioni e le sue pazzie; un amore consapevole che l’amato non è perfetto, non corrisponde al ritratto ideale che l’amante si era fatto e che nonostante questo attrae a se indissolubilmente chi abbia la ventura di incrociare il suo passo. Antonio Franchini, non più giovane e non ancora vecchio decide di tracciare un solco, esprimere alcuni dubbi da cui tanti combattenti e scrittori sono attanagliati ma che non confesserebbero neppure sotto tortura (scrittori si nasce o si diventa? Tutti i Maestri di Arti marziali sono giusti e saggi?), mettere a nudo la sua anima, parlando di sé, di una madre secondo cui mangiare guarisce ogni male e rispecchiandosi nell’ombra fantasmatica di un eroico zio omonimo morto in guerra. Un libro di ossessioni e di finzioni, l'ossessione di Mishima per un tardivo riscatto del suo corpo e quelle di frequentatori di palestre e culturisti, scrittori e pugili, e la finzione del combattimento che eseguito secondo le regole delle arti marziali (di una qualunque arte marziale) è essenzialmente finto, cioè privo dello scopo che sarebbe proprio e originario del combattimento (la salvezza di sé, l'uccisione dell'avversario), così come lo scrivere è un'attività che si confronta continuamente con "qualcosa" (con la morte, sembra accennare Franchini a più riprese) ma sempre ineluttabilmente per finta.
E pertanto lo scrivere in sé, non lo scrivere in quanto scrivere fiction ma lo scrivere in sé, appare come un'attività fittizia: non, quindi, l'attingere a "una forma superiore dell'essere umano", ma piuttosto l'esercitare "un'abilità, una forma di perizia come tante". Per uno come me, che ama le citazioni, questo libro è una ricca miniera, a partire da quella riportata nella quarta di copertina: “Ogni scontro comincia con le parole, la maggior parte degli scontri non va oltre le parole”. Letta l’ultima pagina, si rimane nel dubbio nel voler classificare il genere appena letto: non è un romanzo, anche se ne ha a volte l’andamento; al pari non è una autobiografia o un diario. Non è neppure un saggio o un manuale, pur essendo più utile ed illuminante di manuali e saggi che fanno bella mostra di sé nelle vetrine delle librerie con gran spreco di maiuscole e punti esclamativi sui risvolti di copertina e sulla fascetta.
Certo è che merita la lettura e l’impegno nello scovarlo nonostante gli anni trascorsi dalla pubblicazione, perché contiene un insegnamento suggerito e non urlato, offerto e non imposto, il tutto in bello scrivere e senza masturbazioni egoiche ed intellettuali il che, lasciatemelo dire, è un caso non molto frequente nel panorama editoriale nostrano.
"La prima volta che mi fu mostrata la possibilità di un rapporto diretto tra la letteratura e le arti marziali, partecipavo a una lezione di jeet kune do" (p. 27). Il jeet kune do è una tecnica (o uno stile) di combattimento inventato da Bruce Lee (sì, quello dei film) e consisteva nella mescolanza (opportunistica, anti-scolastica) delle tecniche più efficaci delle varie scuole di combattimento, boxe inclusa. "Il maestro (...) martellava il corpo dell'allievo con una progressione di colpi che partivano dalla lunga distanza, poi si appressavano, ogni tecnica annodandosi alla precedente: una leva che seguiva a una gomitata e una ginocchiata, fino alle prese di strangolamento a terra, quando il corpo della vittima era crollato. Di ogni tecnica il maestro sottolineava l'intercambiabilità" (p. 29). "Insomma, è come quando scrivete - continuò il maestro, imbarcandosi in un'analogia inaspettata - io v'insegno dei colpi che sono dei vocaboli, poi bisogna inserirli in concatenazioni che sono le frasi, la grammatica, ma quando diventerete più capaci, sarete voi a comporre le vostre frasi, cambiando, a vostra scelta, come quando scrivete..." (pp. 29-30).
(maggio 2007)