Editore:Astrolabio Ubaldini Edizioni
Data pubblicazione:Settembre 2011
Formato: Libro in brossura, 138 pagine,15x21 cm
Tradotto da: T. Lena
Collana: Civiltà dell'Oriente
ISBN: 8834016076
ISBN 13: 9788834016077
Come sa bene chiunque si interessi, anche solo superficialmente, di arti marziali orientali, la spada ha una posizione centrale nella cultura e nella storia del Giappone, ed è associata soprattutto ai samurai, la classe militare che fiorì tra il 1200 e il 1600. Nato come arciere a cavallo, la classe dei samurai ebbe modo di ideare e sperimentare sui campi di battaglia le tecniche e gli strumenti che la hanno resa famosa nei secoli successivi. Con l’avvento al potere del Clan Tokugawa ebbe inizio un lungo periodo di pace, e la classe guerriera subì una profonda trasformazione, non sempre facile ed indolore, che contribuì a vedere sotto una nuova luce le tecniche e le strategie impiegate sul campo di battaglia.
Quello che prima era necessario per sopraffare fisicamente un nemico armato, venne utilizzato come strumento di auto miglioramento e crescita personale. In questa profonda azione di mutamento – a volte apparente ed a volte sostanziale – dell’atteggiamento dei samurai, la spada rimase fedele alleata al fianco del guerriero, come lo era stata sui campi di battaglia.
Se si volesse usare un termine moderno, si potrebbe parlare di una visione “olistica” del praticante, in cui mente, spirito e corpo ritornano ad essere un tutt’uno indiviso e armonico.
I cinque saggi raccolti in questo volume sono stati scritti in un ampio periodo che va dal XVII° al XVIII° secolo, un periodo – come detto – ricco di cambiamenti epocali, che non potevano non riverberarsi anche sul sentire individuale di chi vi si trovava coinvolto. Sono testi che in molti aspetti appaiono notevolmente diversi tra loro, come stile e come obbiettivi, ma che nondimeno hanno diversi punti in comune, a partire dalla importanza attribuita ai fattori interiori che coinvolgono la mente e lo spirito del praticante e che costituiscono, sostanzialmente, la vera essenza dell'arte, che consente di ottenere uno stato di "non mente" (mushin) che consente di “vincere prima ancora di estrarre la spada”. Non si tratta – si badi bene – di una sorta di scorciatoia; se e quando si raggiunge un simile livello, il percorso compiuto è lungo, impegnativo e – sostanzialmente – infinito, in grado di “far scomparire il pensiero e con esso tutte le distinzioni: tra sé e l’avversario, tra vittoria e sconfitta, spada e non spada”, un percorso che impegna il praticante per una vita intera e che deve essere scoperto e percorso da ciascuno, potendo il Compagno o il Maestro al massimo affiancare e giammai sostituire, colui che è sulla Via.
Il primo scritto è “Le tecniche misteriose del vecchio gatto” (Neko no Myoujutsu) di Issai Chozan, pseudonimo di Niwa Jurozaemon Tadaaki (1659 – 1741), ed è forse il testo più noto rispetto a quelli presenti nella raccolta, particolare singolare, considerando che non si parla di spada in senso stretto e che l’autore – come ammette lui stesso – non era un Maestro di scherma. Si tratta di un racconto che vede protagonista un vecchio gatto, che riesce ad avere la meglio su un topo contro cui erano usciti sconfitti altri gatto più giovani, agili e forti di lui. Interrogato su come sia riuscito nell’impresa, il vecchio gatto spiega quanto sia importante lo stato di “non mente”, di volta in volta definito anche “mancanza di intento” o “essere privi di intenzione”.
Numerosi gli spunti di riflessione, incentrati sulla fondamentale importanza di mettere da parte il “sé” ed i pensieri consci di “causa ed effetto”; quando al vecchio gatto viene chiesto di spiegare quale è il significato di “nessun nemico, nessun sé” egli risponde: “E’ perché siamo presenti che c’è un avversario, Se non ci siamo, non c’è nessun avversario. […] Qualsiasi cosa abbia una forma, trova resistenza, ma se la tua mente è priva di forma nulla le si contrappone.”.
Il racconto si conclude con una raccomandazione che vale per ogni disciplina – marziale e non – con il vecchio gatto che afferma: “Mi fermo qui. Dovete riflettere da soli sulle cose. E’ così che i maestri le tramandano, giacché possono insegnare soltanto la teoria. Sta a voi estrarre la verità. […] Dovete coltivare voi stessi. Insegnare serve soltanto a indicare quel che non potete vedere senza aiuto. Il maestro non vi “dà” nulla. E' facile insegnare, ed è facile ascoltare ciò che ci viene insegnato, ma è difficile riscoprire qualcosa in noi stessi e appropriarcene. Ciò è detto "autorealizzazione". L' "illuminazione" è svegliarsi e vedere il sogno per quello che è. L'autorealizzazione è la stessa cosa. Non c'è differenza."
Il secondo scritto è “Teoria della spada” (Kensetsu) di Hirayama Shiryu (1759 – 1828), nato in una famiglia di militari e valente ed appassionato studioso di discipline marziali, trascorse tutta la sua vita in maniera austera e modesta, allenandosi quotidianamente per molte ore nelle tecniche della scherma, e non solo. Già dal titolo e dalle note sull’autore è facile immaginare quanto questo testo possa essere all’opposto del primo, ed apparire tanto pragmatico da sfiorare la crudezza già nelle prime righe, dove l’autore illustra lo scopo della sua opera: “La mia scherma serve ad uccidere brutalmente il nemico. Dovete usare questo senso di ferocia per penetrare direttamente nel cuore e nella mente del nemico. Ma cosa accade se manca questa intenzione omicida che dovrebbe penetrare nel suo intimo? Per rispondere, spiegherò la mia teoria.”
E’ bene dire che ad un lettore ignaro della “forma mentis” del guerriero in generale e di quello nipponico del periodo in esame in particolare, certi passaggi potrebbero sembrare proclami di un folle omicida, quindi è bene sottolineare la necessità di contestualizzare nel tempo e nella società quanto si andrà a leggere, cercando – per certi aspetti – di andare “oltre lo scritto”, per quanto evidente questo possa sembrare, come nel caso di passaggi come: “Il vero carattere del guerriero si basa sulle sue imprese con la spada. E’ la via della morte, non della vita.” o “Stare a un passo dalla morte e cercare di prolungarsi un po’ la vita è un comportamento disonorevole, codardo e vile”.
Il testo si presenta ricco di suggerimenti e stimoli che spaziano dal meramente pratico all’evocativo, ed è davvero difficile scegliere di proporne ad esempio uno piuttosto che un altro, quindi ammonimenti come “Limitarsi a ricevere l’iniziativa altrui per poi difendersi, parare e intercettare o schivare all’ultimo momento, significa essere controllati dagli altri, essere l’ospitato.” piuttosto che “Se non siete decisi a divenire tutt’uno con la vostra spada e ad affondarla senza paura, di punta e di taglio, nelle prime file del nemico, come vi si può ritenere affidabili quando guidate un assalto per annientarlo?” sono semi da cui possono scaturire interessanti riflessioni, applicabili al “campo di battaglia” su cui quotidianamente ciascuno di noi si mette alla prova.
Il terzo testo è “Un trattato sulla spada” (Kencho) sempre di Hirayama Shiryu, che offre un aspetto “meno truce” (le virgolette sono d’obbligo) della pratica schermistica, pur non mancando – come nello scritto precedente – degli espliciti richiami allo scopo pratico dell’uso della spada, come nel caso in cui afferma: “’Rispondere’ significa sincronizzarsi, La mia mente, cioè, riecheggia l’intenzione del nemico di uccidere. Se mi sincronizzo, posso prendere io l’iniziativa non appena ha inizio la sua mossa” oppure “Non c’è altra via, se non iniziare lo studio delle arti marziali al fine di sviluppare l’ira controllata e lo spirito letale” o ancora, sempre citando un classico cinese, “Attacco per ultimo ma vado a fondo per primo”.
Vi sono però anche altri suggerimenti, che pur prendendo sempre spunto da esempi pratici, mostrano in maniera evidente possibilità di analogia con altri tipologie di conflitti, come nel caso di “anche di fronte al rischio che la testa venga mozzata dal corpo, lo spirito non deve mai temere offese”, “se un solo uomo è pronto a sacrificare la vita, mille uomini possono essere snervati”, “La differenza tra un uomo che pensa di farsi un nome con la vittoria e un uomo che, consapevole che il terreno sotto i piedi potrebbe essere la sua tomba, avanza passo a passo, è immensa” oppure “Vittoria o sconfitta non sono una questione di abilità, ma di coraggio o vigliaccheria”.
Più “tecnico” il quarto scritto, ovvero le “Considerazioni di Joseishi sulla spada” (Joseishi Kendan) di Matsuura Seizan (1760 – 1841) che fu uomo di lettere e maestro di scherma, qualità che appaiono evidente nel suo testo che comincia con una lapalissiana (ma non tanto…) affermazione: “Nel maneggiare la spada c’è un modo giusto e un modo sbagliato. Se la maneggiate male non conseguirete la vittoria, per via della tecnica errata” e prosegue con consigli come “Quando colpite da una guardia alta dovete avere l’impressione che la punta della spada taglierà l’avversario sino all’inguine” oppure “legate una mosca con un sottile filo di canapa e cercate di colpirla con una stoccata. Anche questo è lo spirito della scherma” che ricorda un po’ l’esercizio con le bacchette del maestro Miyagi in “Karate Kid”.
Evidenti i richiami alla consapevolezza dello “strumento” impiegato, come in “Usare una mannaia nello stesso modo in cui si usa un coltello da pesce è segno di inesperienza” ed alla giusta attitudine mentale: “Quando afferrate la spada di legno per colpire con il setsuka-to (tecnica per fendere l’armatura) e la alzate nella guardia alta, non guardate la spada dell’avversario ma entrate nello stato di mushin (non mente)”. Pur facendo riferimento, in questo scritto come anche negli altri, a precisi stili di scherma, alcuni consigli hanno valenza “universale”, come quello – probabilmente familiare a molti aikidoka – che ammonisce “Anche se la scherma è composta di tecniche con la spada, se siete disarmati sarete molto più efficaci di coloro che, pur portando una spada, ne trascurano l’arte” o quello che suggerisce “se vogliamo sapere se l’avversario è abile o no, dovremo fare più attenzione ai suoi piedi che alle sue mani”.
Ultimo scritto nella raccolta è “Ignoranza nella scherma” (Kenjutsu Fushiki Hen) di Kimura Kyuhou (1704 – 1764), della cui biografia non si conosce molto e che imposta il suo testo – come spesso accade – come una serie di domande e risposte tra un Maestro di scherma ed un suo ospite, che lo interroga sulla sua Scuola e la sua didattica. Il testo è ricco – anche in questo caso – di suggestioni e suggerimenti, con numerosi riferimenti ai classici della cultura orientale ed al “Tao te Ching” in particolare, difficile citare un passaggio piuttosto che un altro, ma credo che la misura migliore dello scritto la dia lo scambio di domande e risposte finale: “L’ospite chiese: “Cosa sono i misteri profondi?”.
Il maestro rispose: “Sono inconoscibili”.
L’ospite chiese: “Ma allora, non è questa ignoranza?”.
Il maestro rispose: “No, possono essere conosciuti, ma non compresi”.
L’ospite chiese: “Come può essere possibile?”.
Il maestro concluse: “Anche se è come conoscere, non è conoscere. Tutto quel che posso dire è che sono oltre la comprensione”.
In conclusione, un libro sostanzialmente “per addetti ai lavori”, non tanto perché necessiti di una esperienza schermistica pratica (che di certo – comunque – non guasta…) quanto piuttosto perché può essere meglio apprezzato da chi, con alle spalle una sufficiente esperienza, può in qualche maniera cogliere meglio determinati spunti di riflessione , ricordando che – come affermava il duca Li Wei citato ne “La teoria della spada” da Hirayama Shiryu, “istruire i soldati vuol dire non insegnare loro nulle di insolito”.