Se la tranquillità dell'acqua permette di riflettere le cose, di che cosa non è capace quella dello spirito dell'uomo?"
(Zhuang-zi / Chuang-tzu)
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"Quando l'acqua è tranquilla può riflettere la barba e le sopracciglia di un uomo e la sua superficie è così ferma che può servire da livella al mastro carpentiere. Se la tranquillità dell'acqua permette di riflettere le cose, di che cosa non è capace quella dello spirito dell'uomo?" (Zhuang-zi / Chuang-tzu)
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Grazie alla gentile disponibilità del M° Claudio Regoli, proponiamo questo aneddoto che dimostra tanto l’”umanità” quanto l’umiltà dei grandi Maestri del passato (NdR) Anche i grandi hanno le loro piccole debolezze, come questo artigiano che usa un “trucco” che sarebbe molto biasimato in un campo di golf. Tuttavia Kotetsu è senz’altro un grande; si racconta di una sua spada, piegata in Francia durante una dimostrazione, che dopo tre mesi è ritornata dritta. Non ho visto personalmente il fatto, ma conosco la spada, i protagonisti e diversi testimoni dell’episodio. Nagasone Kotetsu era famoso come fabbricante di armature. Un giorno venne avvisato che un suo elmo sarebbe stato usato in una prova di “Kabuto Wari”, confrontato da una lama di Kiyomitsu, che avrebbe svolto lui stesso la prova. Han Xiong Ba Bei (hán xiōng bá bèi, Han hsiung pa pei, 含胸拔背) Mantenere il busto rientrato e stirare il dorso Sink the chest and pluck up the back Il busto (Xiong) deve essere incassato (Han) in maniera naturale, in maniera che il Chi possa concentrarsi nel Tantien. Bisogna quindi evitare di espandere il torace, altrimenti il Chi si concentra nel petto e la parte superiore del corpo diventa pesante e quella inferiore troppo leggera, così che le caviglie rischiano di essere sradicate. Stirare (Ba) la schiena (Bei) serve a far aderire a questa il nostro Chi, ed inoltre permette di emettere la nostra forza attraverso la colonna vertebrale. Seguire questa regola ci renderà combattenti senza eguali. (Non pensare che il Karate si esplichi solo nel Dojo) Questo principio è stato formulato dal M° Funakoshi e viene illustrato dello Shoto Nijukun all’ottavo posto. Esso vuole insegnare che un praticante di arti marziali non dovrebbe pensare che l’esercizio della tecnica nel Dojo sia più importante dell’esercizio della sua condotta interna nella quotidianità. Molti allievi si concentrano sulla tecnica, ricoprendo questa la massima importanza ai loro occhi, e tralasciano l’esercizio del comportamento. In tal modo omettono di riconoscere importanti nessi nell’esercitazione del Budo e, mentre combattono in vista dell’auspicato progresso, mancano il senso della Via. Guardano presuntuosamente dall’alto a ciò che considerano di scarso rilievo e non si accorgono che in tal modo danno luogo ad una condotta che impedisce il loro progresso nella Via. (Traduzione ed adattamento di “Without Hesitation” del Ven. Anzan Hoshin roshi - http://www.wwzc.org/book/zanshin) Zanshin si può tradurre come “la mente che rimane” oppure “la mente senza residui” ed è la mente della azione completa. Questo è il momento del Kyudo (arcieria giapponese) in cui la freccia è stata appena scoccata, è il “Om makurasai sowaka” nella pratica Zen dello oryoki (pranzo comune) in cui si beve l’acqua di risciacquo; quando si passeggia è il momento in cui il peso è tutto su un piede e comincia a muoversi l’altro piede, nella respirazione è quando è compiuta la inspirazione o la espirazione, nella vita è questa vita. Zanshin significa seguire completamente, senza lasciare traccia, significa ogni cosa, completamente, così come è. Quando corpo, respiro, parola e mente sono rotti l’uno dall’altro e sparpagliati in concetti e strategie, allora nessuna loro vera azione può rivelarli. (Traduzione ed adattamento di “Uchidachi & Shidachi” di Nishioka Tsuneo, disponibile presso http://koryu.com/library/tnishioka1.html) L’articolo seguente è la traduzione di un capitolo del libro di Nishioka Tsuneo intitolato “Budo-teki na Mono no Kangaekata: Shu, Ha, Ri” (Budo Via del Pensiero: Shu, Ha, Ri). La traduzione dal giapponese è spesso problematica a causa della ambiguità propria dello stile tradizionale di scrittura dei saggi nipponici. Con l’obbiettivo di chiarire le idee dell’autore e di presentare al meglio il suo pensiero, il testo originale è stato arricchito con una serie di conversazioni personali avute con altri autori, con lo scopo di trasmettere la sensazione dell’insegnamento trasmesso dal maestro al discepolo. Si noti che in questo articolo i suffissi –do (Via) e –jutsu (abilità o pratica) sono usati nella accezione giapponese, che non fa una distinzione netta e precisa tra i due termini. In particolare l’autore non ritiene che questi rappresentino due entità separate, quanto differenti aspetti di una singola realtà, che viene a volte definita Budo, altre volte Bujutsu, percui quando nell’articolo seguente varrà impiegato l’uno o l’altro termine, questo dovrà intendersi come comprensivo sia della definizione relativa tanto alle arti classiche (Ko Ryu) quanto a quelle moderne (Gendai Budo). L’articolo comincia con una disanima del concetto giapponese di “Rei”, termine che presenta una notevole difficoltà di traduzione; anche se infatti può essere tradotto come “decoro”, “etichetta”, “cortesia”, “educazione”, nessuno di questi termini corrisponde completamente al concetto giapponese, così si è preferito lascialo non tradotto, immaginandolo come la qualità e l’essenza delle corrette relazioni tra individui. Diane Skoss (traduttrice) ------------------------------------------------------------------------ Il cuore del bujutsu è il “rei” ed è responsabilità dell’insegnante trasmettere questo concetto agli allievi. Se ciò non avviene, questi ultimi possono tenere comportamenti scorretti e perdere il vero significato dell’addestramento. Sfortunatamente, al giorno d’oggi ci sono tanti esempi di abuso di potere nel Budo giapponese e solo pochi maestri insegnano correttamente i principi del Budo. il Rei nel Budo è diventato artificiale, somigliando alla gerarchia militare nipponica “vecchio stile”. Il vero significato del Rei non è più espresso e vediamo preservata solo la parte peggiore delle tradizioni e cultura giapponesi, cosa che rende necessario trovare un modo per cambiare questa situazione. Il Bujutsu è guidato dal Rei e l’istruttore agisce in maniera da condurre idealmente i suoi studenti verso un traguardo più elevato ma alcune persona, anche abili o in possesso di un grado elevato, mettono da parte ciò che dovrebbero aver imparato circa il Rei. Coloro i quali omettono di praticare così diligentemente da migliorare lo spirito così come migliorano la tecnica è come se dimenticassero l’umiltà del vero Rei e finiscono per diventare irrispettosi e orgogliosi. Abbiamo già parlato del libro “Budo, la Via spirituale delle Arti marziali” di Werner Lind, riportiamo ora alcuni passaggi presenti al capitolo 16, che ha lo stesso titolo di questo articolo. Ovviamente non si tratterà di una pedissequa copiatura (anche perché il diritto d’autore non lo ammette...) quanto piuttosto di una citazione più o meno estesa, con qualche necessario adattamento e riduzione. Dojo kun viene usualmente tradotto come “regole del luogo dove si segue la Via” ed è una raccolta di cinque frasi che costituiscono una esemplificazione dei principi che dovrebbero guidare ogni praticante marziale. Comunemente i Dojo kun vengono associati alle Scuole di Karate, ma i principi che racchiude sono validi per qualunque Arte, tanto che nel prosieguo parleremo di Budo, piuttosto che di una Arte specifica. I cinque motti del Dojo kun terminano con Koto, rafforzativo imperativo del verbo impiegato, e cominciano con Hitotsu, che può essere tradotto come "per primo", "innanzitutto", sottolineando la importanza del seguito di ciascuna frase, ognuna delle quali illumina un particolare aspetto fisico e spirituale del percorso addestrativo del praticante, assumendosi il non facile compito di evitare sia la intellettualizzazione della pratica che la riduzione della stessa a mero atto fisico di forza. Sul sito della benemerita FISAS (http://www.scherma-antica.org) ho letto alcune note del Maestro Andrea Lupo Sinclair che ho avuto il piacere di conoscere in una sua Accademia romana qualche anno fa, grazie alla “intercessione” di Vivio, allora Prevosto d'armi della stessa Scuola. In alcune pagine del sito viene spiegata la filosofia ed il metodo alla base della pratica che vi si svolge, considerazioni che trovo condivisibili ed ampliabili anche ad altri ambiti. In particolare si dice: "La Scherma è paradigma e rappresentazione della vita. Tempo, Misura, Strategia e Natura sono presenti in ogni momento della nostra esistenza" ed anche: "La Scherma è innanzitutto conoscenza di sé stessi. Nessuna tecnica può funzionare se non è praticata con estrema consapevolezza e quieto spirito" Credo che chiunque abbia una sufficiente esperienza nella pratica marziale (e non solo, direi...) non possa che condividere queste affermazioni. (Traduzione e adattamento di “The Eye and the Mind” di James Williams) Le sofisticate arti degli antichi guerrieri avevano dei modi particolari di usare gli occhi. Questo metodo massimizzava l’abilità cerebrale di elaborare le informazioni, in maniera tale che non erano gli occhi a vedere, ma il cervello. Il modo in cui gli occhi sono usati determina come il cervello può effettivamente trattare le informazioni e questo incide su come il cervello percepisce il passaggio del tempo. Quando gli occhi sono usati correttamente, gli eventi scorrono in relazione alla nostra abilità di percepire la sequenza e la rapidità del movimento. Puntate lo sguardo verso un punto particolare, in relazione al vostro avversario (in molte Koryu, come per guardare una montagna distante). Se avete necessità di cogliere più informazioni in un’altra direzione, non muovete i vostri occhi bensì la vostra testa. Un piccolo movimento della vostra testa può aumentare il vostro campo visivo molto di più di quanto possa fare il muovere gli occhi. Spostare gli occhi da un lato all’altro per osservare cose differenti in un momento può essere comparato al fare una fotografia in una direzione, quindi ruotare e poi fare una fotografia in un’altra direzione. Quando tornate alla prima immagine questa è cambiata e non c’è una continuità che la mente possa seguire, e questo comporta l’aumento del numero delle variabili che la mente deve riordinare senza che tra loro vi sia continuità e di conseguenza è facile che venga sopraffatta dagli eventi. (Traduzione e adattamento di “The sotoba (gorinto) explained” di Shifu Nagaboshi Tomio Credo che la quasi totalità di praticanti marziali abbia letto – o almeno sentito parlare – del “libro dei cinque anelli" di Musashi Myamoto, uno dei più noti schermidori giapponesi, e molti di questi si siano chiesti – come me – il significato del titolo, ed in particolare cosa siano questi “cinque anelli” e che rapporto abbiano che la spada nipponica. La spiegazione comincia ad apparire se si considera il titolo originale dell’opera: go-rin-no-sho. “Sho” può essere tradotto come “libro, “no” è l’articolo determinativo “il”, “go-rin” si traduce letteralmente come “cinque anelli”. La chiave di interpretazione però, si ottiene considerando che in Giappone il “gorinto”, detto anche “sotoba” (che a sua volta è una deformazione fonetica del termine “stupa”) è un tipico monumento della tradizione buddista. La traduzione dell’articolo che segue, potrà quindi essere utile sia a chi voglia conoscere qualche dettaglio in più su questi particolari manufatti che colmare la curiosità relativa al titolo dell’opera di Musashi. |
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