In particolare si dice:
"La Scherma è paradigma e rappresentazione della vita. Tempo, Misura, Strategia e Natura sono presenti in ogni momento della nostra esistenza"
ed anche:
"La Scherma è innanzitutto conoscenza di sé stessi. Nessuna tecnica può funzionare se non è praticata con estrema consapevolezza e quieto spirito"
Credo che chiunque abbia una sufficiente esperienza nella pratica marziale (e non solo, direi...) non possa che condividere queste affermazioni.
Dan kai-tekki ni: è la fase iniziale dello studio; la sequenza di movimenti (kata) viene suddivisa in passaggi elementari, eseguiti a turno dai partner, secondo uno schema tipico di attacco-parata-contrattacco, con un paio di secondi di attesa tra un movimento e l'altro e con un conteggio che scandisce i vari movimenti, eseguito da entrambi i praticanti.
Awase-masu: Letteralmente “facciamo/realizziamo sintonia/armonia. In questa fase la sequenza di movimenti è ancora suddivisa in passaggi elementari, eseguiti però in contemporanea dai partner. Si potrà avere quindi l'attacco dell'uno e la parata dell'altro nello stesso tempo e poi un contrattacco, sempre con un paio di secondi di attesa tra un movimento e l'altro e con un conteggio detto in precedenza.
Kiai-desu: la terza ed ultima fase, in cui il kata è eseguito il forma fluida e continua (e non necessariamente veloce!), senza soluzione di continuità tra un movimento è l'altro, in questa fase i singoli passaggi non sono più indicati dalla numerazione progressiva, ma da kiai adeguati all'azione da eseguire.
Come detto, al principio si lavora molto sulla coordinazione fisica e sul gesto tecnico; praticando con armi è questa una conditio sine qua non per evitare incidenti ed infortuni e per passare poi ai livelli successivi.
“Addestrato” il nostro corpo come individualità a se' stante, si passa nella seconda fase ad una sincronizzazione del “sé” con lo “altro da sé”, dove è ancora preponderante il fisico ma incomincia a far capolino qualcosa di diverso e più “sottile”. La contemporaneità di azione dei due partner rimette in gioco le paure “contattate” nella fase precedente: sbagliare, colpire, essere colpiti, mancare il bersaglio, dimenticare la sequenza. La contemporaneità della esecuzione non lascia spazio alla mente razionale, che ha solo il tempo dell'intervallo tra un passaggio e l'altro per ricordare cosa fare, un paio di secondi per dire “ora lui fa così e tu fai così”. Si crea armonia, si cerca lo awase, si tenta di raggiungere insieme un movimento armonico, al pari di due orchestrali il cui lavoro all'unisono produca un suono che appartiene ad entrambi i loro strumenti ma non è proprio di nessuno dei due. Il sé non può prescindere dall'altro da sé, pena una sanzione, fisica o meno che sia.
Alla terza fase ci si arriva davvero, se e quando ci si arriva, dopo molti anni di pratica. Nel frattempo la si simula, la si scimmiotta, la si tenta. E' la fase in cui ci si muove insieme, alla stessa velocità, con lo stesso ritmo, con lo stesso respiro. Come per due trapezisti, la minima indecisione, il più impercettibile degli errori può essere fatale, come in effetti era sul campo di battaglia. E' a questo punto che il corpo deve cedere il passo allo spirito e diventarne auriga e servitore, consapevole che solo quello che è “oltre” al fisico può salvare il fisico stesso. E' il “sesto senso”, quello che i giapponesi chiamavano sakki, ovvero la percezione di un pericolo non ancora fisicamente evidente, il “sentire” una aggressione magari solo pensata da chi abbiamo di fronte o alle spalle e su cui si basa la strategia del sen-zen-no-sen, ovvero della “intenzione che precede l'intenzione”. Entra in gioco il ki-ai, espresso fisicamente con una emissione vocale modulata in funzione dell'azione (attacco o difesa hanno kiai diversi, così una parata o una stoccata) che è segno e simbolo di altro, perché ki-ai può letteralmente tradursi come “armonizzazione (ai) dell'energia vitale interna (Ki)”.
Ecco che la pratica in questa fase può avvenire solo se siamo disposti e pronti a “fluire” con l'altro, a cercare insieme un ritmo ed una frequenza sempre variabile e mai stabilita a priori, a dare e a ricevere senza pregiudizi in un eterno presente che non è più passato e non è ancora futuro, a riempirci di lui ed a svuotaci di noi, e viceversa, senza farsi domande e senza cercare risposte prodotte da una mente che deve – in questa fase -essere superata per raggiungere lo stato di mu-shin. Il tutto può apparire ieratico e sovrannaturale, e invece è stato, è e speriamo sempre sarà parte dell'uomo stesso, una parte che tendiamo a dimenticare quanto più ci distacchiamo dalla Natura per sostituirla con ammennicoli elettronici e gadget tecnologici. Naturalmente oggi nessuno ha da difendersi da un fendente di spada o da una stoccata di lancia, ma è solo questione di impiegare bene uno strumento per un compito a cui è adatto, anche se non è necessariamente quello per cui è stato costruito.
“Sentire” non è mai a senso unico, saper percepire la aggressività ci consente di accogliere anche l'affetto, essere in grado di individuare chi ci vuole male ci permette di fare altrettanto con chi ci vuole bene. Kiai-desu non è solo saper individuare quali nomi scrivere sulla lavagna del nostro cuore sul lato dei buoni e su quello dei cattivi, è anche – e soprattutto – la consapevolezza che noi siamo anche grazie all'altro, che siamo alternativamente bene e male, onda e risacca inscindibili l'una dall'altra, seppure così evidentemente diverse. Ecco che la pratica, a questo livello, non ha più bisogno di armi e neppure di un luogo fisico preciso dove svolgersi, realizzando così l'invito di O'Sensei Ueshiba Morihei, a fare dell'intero Universo il nostro Dojo.