Ieri sera, sul tatami, praticando Aikiken, ho attirato l'attenzione di chi c'era sul modo di impugnare il bokken, evidenziando come - nelle buki waza del Takemusu Aikido - la presa vada applicata principalmente con mignolo ed anulare, diminuendo progressivamente di intensità con le varie dita sino ad arrivare ad un indice quasi solo poggiato.
(Traduzione ed adattamento di "Your Tegatana, Your Shield" di Gregor Erdmann)
Quando riceviamo un attacco energico, possiamo essere sopraffatti dall’istinto e dalla paura, che ci fanno muovere in una maniera tutt’altro che ideale. Uno degli indizi comuni che indica la perdita della centratura è la “ricerca” dell’intercettazione dell’attacco con il proprio braccio difensore. Se consideriamo ad esempio uno yokomen [percossa alla tempia, solitamente portata con un fendente, N.d.R.], spesso il nostro braccio sarà orientato con un angolo errato, che impedirà di ottenere un’area di contatto sufficientemente ampia, esponendo le costole ed addirittura rischiando di indirizzare l’attacco proprio contro di queste. Sebbene ciò sia chiaramente sbagliato dal punto di vista tecnico, ci aiuta poco per correggere l’errore finché diventa parte della nostra filosofia marziale. (Traduzione ed adattamento di “Kata Training and Aikido” di Diane Skoss) Chi non pratica Aikido è spesso confuso quando io parlo dei kata nella pratica dell’Aikido – “Intendi come quelli che si studiano nel karate?”. Perfino molti aikidoka conoscono i kata solo come un termine che si riferisce a delle sequenze di movimenti predeterminati, al contrario delle applicazioni, oppure li identifica nella serie di esercizi con le armi codificati da Saito Morihiro sensei. Ueshiba Morihei apparentemente non approvava il metodo di addestramento dei kata, ritenendo che la “statica” predeterminazione di tecniche interferisse con la diretta e spontanea trasmissione delle tecniche da parte delle divinità. Così, nella maggior parte degli stili di Aikido, il kata come sequenza di tecniche predeterminate non è utilizzato come metodo di addestramento principale. Kenji Tomiki, così come il suo maestro Jigoro Kano prima di lui, riteneva che il kata fosse un utile strumento didattico e lo incorporò nel suo sistema. Oggi, la maggior parte dei praticanti della Scuola Tomiki potrebbero dirvi che il kata è un insieme di tecniche praticate on un partner per l’insegnamento dei principi di base dei vari aspetti del Tomiki Aikido. (Traduzione ed adattamento di “The Quantum Physics Language of Budo” di Nev Sagiba) Il corpo-mente Umano, lo “Hito jinja” contiene tutte le forze dell’universo, sia che noi ne siamo consapevoli sia che lo ignoriamo; la maggior parte di queste rimane allo stato latente per tutta la vita. L’esistenza è una matrice di generi ma molto di più. Qualunque sia l’attività in cui ci impegniamo, è necessario padroneggiarne le relative abilità per poterla eseguire al meglio. Ci sono diversi grandi budoka fuori di qui, non fraintendetemi; rendere a parole ciò che intendo dire non è un compito facile. Recentemente sono stato rimproverato da una persona che io avevo lodato in un mio scritto ma evidentemente, lui ed i suoi associati hanno frainteso la cosa come fosse un malevolo pettegolezzo. (Traduzione ed adattamento di “Osensei and Einstein” di Stefan Stenudd) Il segreto dell’Aikido, disse O’Sensei, “è armonizzare sé stessi con il movimento dell’universo e portare sé stessi in accordo con l’universo stesso”, cosa evidentemente più facile a dirsi che a farsi. Comunque, ho scoperto la prospettiva di O’Sensei ricercando nella pratica dell’Aikido, quanto più accuratamente possibile, secondo un punto di vista scientifico. Per Aikido non intendo l’esecuzione di simpatici trucchi per far cascare un avversario, e neppure un piacevole esercizio fisico in cui due persone si spingono intorno a vicenda (per quanto questo possa essere abbastanza divertente), ci dobbiamo invece concentrare sulla visione misteriosa che ebbe O’Sensei. Allora noteremo un piacevole accordo tra gli ideali dell’Aikido e l’ordine del cosmo. Infatti, i principi dell’Aikido calzano a pennello con le più recenti teorie astronomiche. Nota: Questo scritto – a metà tra il ricordo nostalgico, il pippone filosofico e il saggio etnoantropologico - nasce come risposta ad uno stimato insegnante che sulla sua bacheca facebook scriveva in maniera più o meno ironica del “nikyo sayonara”. Io sono il primo a ridere e scherzare sul tatami e sono l’ultimo che può ammannire insegnamenti ad altri, specie a chi pratica sul tatami da ben più tempo di me. Quindi quanto segue deve essere letto solo come una testimonianza personale ed un modesto tentativo di illustrare un aspetto affatto singolare della pratica marziale. Intervengo rarissimamemte in queste discussioni, non perché non siano interessanti ma perché – ahimè – il tempo che posso dedicargli è assai ridotto. Ciascuno è ovviamente libero di considerare infantili sadomasochisti quattro adulti che si torcono i polsi e versano e si fanno versare della birra in gola. Pratico il tatami da un numero di anni sufficiente per essermi sentito affibbiare le etichette più diverse, e se ancora non mi hanno sottoposto ad un TSO è forse più per fortuna che per altro. Ho un fratello che va in barca a vela in pieno inverno ed un padre che a quasi ottanta anni va a zappare in campagna; evidentemente in famiglia ognuno ha le perversioni autolesioniste che si merita. Ciò premesso, mi permetto di dissentire sul considerare la pratica del nikyo sayonara come un mero “scimmiottamento” di quanto faceva Saito Morihiro sensei ad Iwama (e non perché – sia chiaro – non sia consapevole di quanti “imitatori” dei Maestri passati ci siano sui tatami di questo mondo). (Traduzione ed adattamento di “Kuzushi? What is That and Why Do I Care?” di Harold Zeidman) “Adesso ti insegnerò il segreto i tutte le arti marziali” mi disse un giorno il mio sensei. Io fui molto sollevato da questa notizia; mi ero impegnato nell’addestramento per tre volte alla settimana nelle ultime sei settimane e praticando le mie cadute infine ero giunto ad imparare “la roba seria”. Il mio sensei allora mi insegnò lo happo no kuzushi (le otto direzioni dello squilibrio) e con aria seria mi spiegò che “qualsiasi attacco proviene da una di queste otto direzioni” e che sarebbe stata la mia capacità nel ricevere l’attacco da qualsiasi direzione di provenienza a determinare la mia abilità nella pratica delle arti marziali. |
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Marzo 2017
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