Mettere degli appartenenti ad una associazione di volontariato che si occupa di “protezione Civile” (con tutte le virgolette del caso….) a svolgere compiti di gestione di una manifestazione pubblica e – peggio mi sento! – di ordine pubblico, è da incoscienti ancora prima che da incapaci. Non basta un giubbotto rifrangente, una ricetrasmittente con auricolare e qualche patch multicolore per sapere come gestire centinaia di persone ammassate, come regolare l’afflusso ed il deflusso delle persone tra cui ci sono anziani a ridotta mobilità, disabili in carrozzella e genitori con i bambini in braccio.
Mettere degli appartenenti ad una associazione di volontariato che si occupa di “protezione Civile” (con tutte le virgolette del caso….) a svolgere compiti di gestione di una manifestazione pubblica e – peggio mi sento! – di ordine pubblico, è da incoscienti ancora prima che da incapaci. Non basta un giubbotto rifrangente, una ricetrasmittente con auricolare e qualche patch multicolore per sapere come gestire centinaia di persone ammassate, come regolare l’afflusso ed il deflusso delle persone tra cui ci sono anziani a ridotta mobilità, disabili in carrozzella e genitori con i bambini in braccio.
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Sabato sera, a Roma, nel corso di un seminario di takemusu Aikido diretto da Paolo Corallini shihan, Ciro ha conseguito il grado di shodan con la votazione di 23/30. Una notizia come tante altre per molti, ma non per me, per tutta una serie di motivi. A poche ore dal momento della proclamazione ufficiale dell’esito, è ancora difficile mettere ordine nei pensieri, vuoi per il caotica richiamo degli impegni quotidiani e lavorativi, vuoi perché è un evento che mi ha segnato più di quanto credessi. In una discussione di diverso tempo fa, Enrico Lorenzi, un esperto schermidore ed utente di un forum di Arti Marzioali, affrontava con approccio metodologico da studioso e ricercatore analogie e differenze tra i trattati d’arme occidentali ed i Makimono orientali. Riassumendo il tutto ai minimi termini, si può affermare che anche se entrambi avevano lo scopo di riprodurre tecniche, principi e strategie di una Scuola o di una disciplina, i trattati spesso avevano un approccio più aperto e didattico, mentre i compilatori dei Makimono usavano non di rado un linguaggio criptico e fortemente simbolico, con lo scopo di velare i segreti ai non iniziati. Ma non tutti hanno la possibilità, il tempo, le conoscenze e l’esperienza per analizzare simili opere, così può capitare che interessanti spunti di riflessione vengano forniti – a chi ha occhi per vedere – anche da opere apparentemente più “leggere”, ma redatte però da autori che abbiano avuto esperienze belliche o marziali di qualche tipo. E’ questo il caso di Torquato Tasso e della sua “Gerusalemme Liberata”, che ci illustra - con lo spirito e la sapienza che lo contraddistingue – messer Gianluca Zanini in uno scritto di qualche anno fa, con una analisi che non mancherà di farci rileggere questo grande classico con un approccio affatto diverso da quello, spesso noioso, dei banchi di scuola. (N.d.R.) Pochi forse sanno che tra i cantori italiani del poema cavalleresco, solo il Tasso fu elevato al rango di schermidore e la sua “Gerusalemme Liberata” fu annoverata tra quelle opere letterarie schermisticamente più interessanti. Cominciarono a rivalutare il Torquato e la sua opera i maestri di scherma tra la fine del1700 e l’inizio del 1800, tra i quali i più famosi sono il Rosaroll e il Grisetti, ma dobbiamo aspettare la fine del secolo perché un insigne studioso e schermidore come il piemontese Alberto Cougnet scrivesse due bellissime opere, dove possiamo ammirare una profonda analisi tecnica della “Gerusalemme Liberata” ed una serie interessante di aneddoti sulla vita del Tasso. Si assiste oramai da tempo ad una serie di episodi che – visto il loro numero – è oramai difficile definire isolati o frutto della isteria del singolo. Certamente ciascuno di loro meriterebbe una analisi specifica ed è frutto di circostanze affatto singolari, pure non si può non notare che sono tutti legati da una sorta di filo rosso che li collega e li stringe in un punto focale comune. Periodicamente, sui media di comunicazione, qualcuno fa una affermazione e subito dopo si scatenano una ridda di commenti, improperi, contestazioni e distinguo che più passa il tempo e meno hanno a che fare con la affermazione di partenza. Una categoria emblematica è quella che vede accomunati tra loro affermazioni più o meno discriminatorie ed offensive e le levate di scudi conseguenti, in cui i paladini dell’onore offeso elevano vibrate proteste all’indirizzo dell’oltraggioso commentatore, cercando di smentirlo in tutti i modi. (Traduzione ed adattamento di “Without Hesitation” del Ven. Anzan Hoshin roshi - http://www.wwzc.org/book/zanshin) Zanshin si può tradurre come “la mente che rimane” oppure “la mente senza residui” ed è la mente della azione completa. Questo è il momento del Kyudo (arcieria giapponese) in cui la freccia è stata appena scoccata, è il “Om makurasai sowaka” nella pratica Zen dello oryoki (pranzo comune) in cui si beve l’acqua di risciacquo; quando si passeggia è il momento in cui il peso è tutto su un piede e comincia a muoversi l’altro piede, nella respirazione è quando è compiuta la inspirazione o la espirazione, nella vita è questa vita. Zanshin significa seguire completamente, senza lasciare traccia, significa ogni cosa, completamente, così come è. Quando corpo, respiro, parola e mente sono rotti l’uno dall’altro e sparpagliati in concetti e strategie, allora nessuna loro vera azione può rivelarli. La recensione che segue è stata scritta nel 2007, quindi alcuni particolari che oggi sono quasi la normalità, come ad esempio il nuovo modo di proporre un libro per la “stampa fai da te”, l’invio del volume in formato digitale e l’approccio verso il lettore mediato tramite un sito internet, cinque anni fa erano assai più rare ed innovative, ad ulteriore testimonianza della lungimiranza degli autori. Il tempo trascorso non diminuisce però la validità dell’opera che, oggi come allora, rimane assolutamente attuale ed utilissima, tanto all’esperto che al principiante. (N.d.R.) Per la prima recensione dell’anno volevamo proporre ai nostri lettori qualcosa di diverso rispetto al solito, e crediamo che risponda egregiamente allo scopo un libro che non è un libro, scritto da insegnanti che non tengono corsi o seminari sulla materia che descrivono pur essendo molto competenti e che non contiene descrizioni passo-passo di tecniche preordinate pur essendo molto ricco di illustrazioni e spiegazioni. Con una lungimirante attenzione alle nuove frontiere della editoria, il libro - intitolato “Il mio Kali” - è proposto per la vendita per corrispondenza in formato PDF su un CD. L’errata conclusione che il senso della vita risieda nel benessere fa sorgere l’ansia di dover produrre sempre di più per potersi permettere di più. Ma in questo modo non si centra il senso della vita e si rende l’uomo squilibrato e malato. La vita non è vita se votata ad un qualsiasi scopo, essa deve possedere un compimento in sé stessa. Non è finalizzata a conseguire maggiori guadagni, bensì a cercare un senso, grazie al quale l’uomo sia più libero, sano e felice. Sto provando da un po’ di giorni a riscrivere in bella copia ed organizzare gli appunti presi durante gli ultimi appuntamenti di pratica, specialmente quelli annotati in occasione del masterclass di iriminage diretto da Francesco Corallini sensei a Solferino a metà dicembre. Due sono le sensazioni, una è la percezione forte, quasi visiva, delle correzioni e delle indicazioni ricevute* da Francesco Corallini, Andrea Bonesi, Gianluca Calcagnile e Francesco Falappa durante la pratica; ogni parola scritta, ogni termine annotato, ogni particolare segnato evoca quasi d’incanto il momento di pratica durante il quale è avvenuto. L’altra è la constatazione di quanto sia difficile rendere a parole o per iscritto la mole di insegnamenti ricevuti, di quanto ogni minimo ma fondamentale tassello, limpido nella sua essenza, richieda righe e righe per essere esplicitato almeno sommariamente. |
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Marzo 2017
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