Una delle difficoltà più frequenti che incontra chi debba esprimersi in una lingua diversa da quella propria, è quella di non trovare nella lingua adottiva parole o concetti presenti in quella madre o viceversa. Così in inglese non c’è una parola che renda con la stessa efficacia e concisione l’esclamazione “Magari!” ma di contro il termine anglosassone “feeling” viene spesso e volentieri lasciato tal quale anche in italiano proprio perché nella nostra lingua non lo si riesce a rendere appieno in tutte le sue sfumature.
Questa scorciatoia però presenta il rischio, per il praticante occidentale, di non interrogarsi sul significato profondo di questo termine, di non esaminarlo, quasi in controluce, per scoprirne la trama e l’ordito che ne rivelino l’essenza. Keiko è composto da due kanji: Kei è un kanji poco usato al giorno d’oggi e significa “pensare, considerare”, il termine Ko è scritto unendo il numerale “dieci” a “bocca” intendendo con ciò la saggezza trasmessa da dieci generazioni e, per traslato, quanto di antico ancora oggi meriti rispetto e attenzione. Così keiko possiamo tradurlo con “studiare le cose antiche”, un concetto che descrive appunto la condizione del budoka che percorre una strada, una Via, tracciata da tanti altri prima di lui. Lo studio, la pratica, l’allenamento, sono tutti fattori funzionali al keiko, ognuno di essi trae linfa vitale dal passato, un passato non statico e polveroso ma vivo e vitale, come fuoco ardente che cova sotto la cenere e che un soffio accorto può risvegliare. Questo è lo spirito del keiko: non pedissequa e passiva ripetizione di un “ipse dixit” né stravolgimenti modaioli di quanto trasmesso dai secoli passati, uno spirito che, se ben compreso, continuerà a guidarci, oggi come ieri, nella retta direzione.
Nota: della maggior parte delle informazioni contenute in questo breve articolo sono debitore a Dave Lowry ed al suo "Lo Spirito delle Arti Marziali", volume di cui consiglio caldamente l’acquisto
(Settembre 2007)