Nei primi tempi della storia della scherma giapponese il dogu (armatura da Kendo) non era stata ancora sviluppata e la pratica del Kenjutsu si svolgeva con spade vere o con bokuto (simulacri di legno). Per questo motivo i praticanti rischiavano la vita in ogni confronto; ogni volta che uno di loro affrontava un avversario, uno dei due poteva vivere o morire. Al principio la pratica del Kendo consisteva solo nella esecuzione di Kata (sequenza preordinata di movimenti), percui ogni Scuola di Kenjutsu o Ryu-ha creò un proprio gruppo di Kata per distinguersi dalle altre. Ogni Ryu-ha era naturalmente orgogliosa dei propri Kata ed i principi e le tecniche principali (toh ho) sui quali gli stessi erano basati venivano tenuti ovviamente segreti. Nessuna Ryu-ha permetteva a chi non appartenesse alla Scuola di osservare queste tecniche e gli stessi studenti non ricevevano nessun addestramento in merito a queste tecniche segrete finchè non raggiungevano un elevato livello di bravura.
(Traduzione ed adattamento di “The History and Background of Japanese Kendo Kata” di Honda Tasuke, tradotto in inglese da Robert Stroud)
Nei primi tempi della storia della scherma giapponese il dogu (armatura da Kendo) non era stata ancora sviluppata e la pratica del Kenjutsu si svolgeva con spade vere o con bokuto (simulacri di legno). Per questo motivo i praticanti rischiavano la vita in ogni confronto; ogni volta che uno di loro affrontava un avversario, uno dei due poteva vivere o morire. Al principio la pratica del Kendo consisteva solo nella esecuzione di Kata (sequenza preordinata di movimenti), percui ogni Scuola di Kenjutsu o Ryu-ha creò un proprio gruppo di Kata per distinguersi dalle altre. Ogni Ryu-ha era naturalmente orgogliosa dei propri Kata ed i principi e le tecniche principali (toh ho) sui quali gli stessi erano basati venivano tenuti ovviamente segreti. Nessuna Ryu-ha permetteva a chi non appartenesse alla Scuola di osservare queste tecniche e gli stessi studenti non ricevevano nessun addestramento in merito a queste tecniche segrete finchè non raggiungevano un elevato livello di bravura.
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Tra le cose piacevoli delle vacanze, ci sono sicuramente l’avere un po’ più di tempo per dedicarsi ai propri piaceri e il caldo afoso che invita a stare a casa; complici questi due fattori mi sono concesso la visione di due film un po’ anzianotti, per certi aspetti indicativi del modo in cui le Arti marziali orientali furono percepite in Italia al principio della loro diffusione. Il primo film è praticamente un mio coetaneo, essendo uscito nelle sale nel 1962. Si tratta di Due samurai per cento geishe per la regia di Giorgio Simonelli. La pellicola vede tra gli attori Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Mario Carotenuto e Gianni Agus, mentre tra le attrici un ruolo ben “visibile” è interpretato da Margaret Lee, Moa Tahi e Rossella Como. La trama della pellicola è abbastanza esile, giusto il necessario per consentire agli attori di esprimere le loro capacità istrioniche e solleticare la curiosità esterofila degli spettatori verso un mondo tanto affascinante quanto sconosciuto. Franco e Ciccio sono due sempliciotti che sbarcano il lunario come possono, quando vengono a sapere da un furbo avvocato di aver ereditato una grossa somma di denaro da una zia immigrata in Giappone e moglie di un samurai. Decidono così di partire verso il paese del Sol Levante per incassare l'eredità insieme all'avvocato, che nel frattempo ha fatto firmare loro uno strano foglio in bianco. Arrivati in Giappone scopriranno che prima di prendere possesso del denaro dovranno diventare due samurai provetti e - come se non bastasse – che un clan rivale vuole vendicarsi su di loro per la morte del loro capo. |
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