Con Takeshi Kitano, Tadanobu Asano, Akira Emoto, Yuko Daike, Saburo Ishikura, Ittoku Kishibe, Yui Natsukawa, Michiyo Ookusu, Gadarukanaru Taka, Daigorô Tachibana, Ben Hiura, Kohji Miura, Koji Koike, Kanji Tsuda, Taigi Kobayashi, Ayano Yoshida
Commedia, durata 116 min. - Giappone 2003.
Ci sono diversi indizi che personalmente mi fanno dire che un film mi è piaciuto: ovviamente, il provare la voglia di rivederlo e il trovarvi citati o evocati uno o più film che mi sono a loro volta piaciuti. “Zatoichi” di Takeshi Kitano, uscito nelle sale cinematografiche nel 2003 ed oggi disponibile anche a noleggio, risponde in pieno ad entrambe le condizioni; la voglia di rivederlo, magari passando al rallentatore alcune delle scene di combattimento, è scattata appena terminato lo scorrere dei titoli di coda, i film citati o evocati sono diversi, dai precedenti dello stesso Kitano a “I sette samurai” e “La sfida del samurai” di Kurosawa.
A beneficio (e per incuriosire…) chi non ha ancora visto il film, riassumiamo in breve la trama: lungo le strade polverose del Giappone del XIX secolo viaggia un massaggiatore cieco, che sin dalle prime inquadrature del film si rivela un letale spadaccino grazie all’abilità nel maneggio della sua shirasaya. Nel suo vagabondare giunge in un villaggio di contadini, vessati da una banda di spietati malviventi, che taglieggiano gli abitanti e gestiscono una bisca. Nello stesso villaggio giungono ad offrire i loro particolari servizi due geishe: Okinu e Osei ed Hattori, un ronin accompagnato da una giovane donna malata.
I loro destini, insieme a quelli di una anziana contadina che offre ospitalità al massaggiatore ed al suo sfaccendato nipote, si intrecciano in una drammatica spirale, che, non a caso, ruota intorno ad un osteria. Le due geishe, che si scoprono essere fratello e sorella, stanno cercando da dieci anni i banditi che trucidarono nel sonno i loro genitori mentre Hattori cerca il ronin che anni prima lo aveva disonorato battendolo e sbeffeggiandolo durante un duello e, bisognoso di denaro per curare la compagna malata, si offre come guardia del corpo di Ginzo, il capo della banda di malviventi. In tutta la durata del film si respira una specie di atmosfera “yin/Yang” dove non tutto è perfettamente come dovrebbe essere: i buoni hanno una punta di cattiveria, i cattivi sembrano più sfruttare le avidità altrui che imporre il proprio coraggio, nella tragedia scappa un sorriso (come nella scena del massaggiatore con gli occhi disegnate sulle palpebre chiuse o in quelle dei contadini che zappano a tempo di musica o ballano sotto la pioggia in mezzo ai campi), non tutti sono quel che sembrano (una delle geishe è un uomo, del massaggiatore non si conosce il nome, il capo dei capi dei banditi è ben nascosto nella sua nuova identità, ed anche il cieco si scopre vedere benissimo).
Come già in altri film, Kitano è tagliente e preciso come la lama d’acciaio del massaggiatore e mescola sapiente dolce e amaro, tragedia e farsa, splatter e buoni sentimenti, variopinti tatuaggi yakuza e nivei volti di geishe, mostrando i difetti umani nel loro banale squallore, senza boria o intenti moralistici, ma forse solo per renderli parodisticamente più evidenti, senza neppure la speranza del riscatto finale alla maniera dei blockbuster stelle e strisce, che sarebbe tanto improbabile e assurdo quanto lo è il biondo dei capelli del massaggiatore o il balletto finale, che sul ritmo dei tamburi tradizionali giapponesi vede esibirsi in un numero di tip-tap dei ballerini che indossano i geta, tradizionali sandali in legno con due zeppe sotto la suola.