Ve ne propongo una, ringraziando con l’occasione l’autore, Gianluca “Rodomonte” Zanini, per avermi permesso di farlo.
Lasciate che vi posti questo passaggio dal quel meraviglioso libro che è “Il rumore sordo della battaglia” di quel genio di Antonio Scurati da Bergamo. Un libro violento, a tratti pesante, che racconta delle gesta di cavalieri, confraternite, tornei e massacri, in quello stile pignolo e accurato che solo uno storico laureato in scienza della guerra e della violenza può fare, ma tuttavia scevro di quei stupidi luoghi comuni e stereotipi con cui la letteratura cavalleresca, per non dire il cinema, troppo spesso ama infarcire i propri copioni precotti.
Ma veniamo al quid. Il giovane rampollo che dopo il suo primo torneo, nel giorno della sua consacrazione a cavaliere, vede tutte le sue terre annientate dal gallico Carlo V, che con i suoi falconetti rade al suolo le mura di Fivizzano in 30 minuti dando inizio a ciò che chiameranno la “mala guerra”, si trova nel momento cruciale della sua storia quando viene iniziato alla confraternita di cavalieri a cui si è unito nella fuga dal morbo che valicò le Alpi.
Buona lettura :
“Fu così che scorsi ai miei piedi un ramo di quercia, portato lì da chissà quale bufera. Mi chinai, lo raccolsi e lo strinsi forte con entrambe le mani. In quello stesso istante la lupa smise di zampettare e rimase immobile. Perché non attaccava? Perché mai non mi saltava al collo? Perché non mi offriva quell’unica occasione di ammazzarla?
Mi era stato detto fin da bambino che gli occhi devono arrivare prima del colpo. Per mantenermi fedele a quel primo precetto del guerriero, ero così concentrato sul muso della belva, il mio sguardo era così violentemente piantato in mezzo alla sua fronte, che il mio udito si era quasi del tutto spento. Mi ci vollero perciò alcuni secondi per percepire il frastuono levatosi alle mie spalle nell’attimo stesso in cui mi ero inchinato a raccogliere il bastone. Ne ebbi la consapevolezza con qualche attimo di ritardo, e perciò con qualche attimo di ritardo mi voltai a guardare cosa succedeva dietro a me. Quando finalmente lo feci, provai la gioia più intensa di tutta la mia vita trascorsa e futura. I miei compagni non mi avevano abbandonato. Erano tutti lì al gran completo.
Tutti i membri della fratellanza che facevano parte della banda del Malacarne avanzavano, infatti, dietro di me a ranghi serrati, fianco a fianco, schierati lungo una linea continua. Alcuni battevano su dei tamburi, altri reggevano con entrambe le mani due grossi bastoni che facevano risuonare picchiandoli uno sull’altro. Presto mi raggiunsero e mi inghiottirono nelle loro fila. Era una battuta di caccia. I fratelli stavano cacciando nel modo in cui dovevano aver cacciato nostri progenitori ai primordi dell’umanità. Era una battuta di caccia ma adesso i cacciatori eravamo noi. La lupa, la feroce divinità femminile che nei millenni aveva preteso sacrifici umani per allattare la sua prole con il sangue, adesso era la preda. Le fummo addosso in un attimo e non le lasciammo scampo. Il cerchio si strinse attorno alla belva. La massacrammo a colpi di bastone fino a ridurla in una poltiglia sanguinolenta.
Poi il rullo cessò. Soltanto allora riconobbi i miei compagni a uno a uno. Soltanto allora fui in grado di riconoscerli davvero, vedendo le fattezze del loro volto rischiarate dalla luce delle torce. Soltanto allora riconobbi nel Malacarne l’uomo che si chinava su ciò che rimaneva della lupa, le tuffava una mano nel petto, le strappava il cuore e me lo offriva”
Ovvio che il passaggio è ricco di simbolismi e riferimenti allegorici, ma lascio che ognun ne tragga le proprie ispirazioni e insegnamenti.