E’ questa una delle possibili interpretazioni del concetto di “mu-shin” (nessuna mente) illustrato da Maestri come M. Musashi o T. Soho e che non si deve confondere con una reazione “istintiva”. Quest’ultima infatti non scaturisce da un lungo e intenso allenamento ma da un inconscio condizio-namento atavico sviluppato nel tempo e trasmes-so “geneticamente” ad ogni essere vivente (uomo compreso) che, essendo il frutto di ancestrali archetipi, spesso oggi non solo è inutile ma addirittura dannoso. Un paio di esempi chiariranno forse meglio il concetto: di fronte ad un attacco portato con un fendente (il classico shomenuchi, per intenderci) quasi tutti, istintiva-mente tenderemmo ad allontanarci indietreggiando; solo la lunga pratica sul tatami condiziona l’allievo ad avanzare invece verso il colpo, arrestandolo e neutralizzandolo.
Ancora, su una presa ushiro dori alle spalle, istintivamente ci irrigidiremmo opponendoci alla spinta o alla trazione dell’avversario con una reazione di segno opposto mentre invece, grazie all’allenamento, impariamo a sfruttare la sua energia per eseguire la nostra tecnica di proiezione o di immobilizza-zione. Spesso il motivo ultimo del Kata è incomprensibile all’allievo (chi non ricorda l’insofferenza di Daniel-san al “Metti la cera, togli la cera!” del Maestro Mihagi in “Karate kid”?) eppure questo metodo è una base imprescindibile per costruire una tecnica solida ed affidabile. Al pari delle fondamenta di una casa, invisibili ma indispensabili, è questo lavoro di base che permette ad un allievo di imparare correttamente e sviluppare la giusta coordinazione psico-motoria.
Al moderno praticante invece, abituato a “veloce è bello”, questo passaggio sembra spesso una perdita di tempo: nel migliore dei casi un rigido omaggio ad una tradizione superata e nel peggiore un modo, da parte dell’istruttore, per “allungare il brodo”. Il principiante, ansioso di bruciare le tappe, vorrebbe imparare tutto e subito e morde il freno nel ripetere la stessa tecnica magari per più di un quarto d’ora di fila. E’ questo forse uno dei punti più critici del cammino marziale di un qualsiasi praticante: quello in cui deve comprendere che è più importante procedere in profondità che in distanza sul suo cammino marziale.
Questo richiede certamente una forte motivazione da parte dell’allievo ed una altrettanto forte guida da parte del suo istruttore, ancor più necessaria per le nostre Arti che debbono confrontarsi con altre discipline che usano cinture colorate come specchietti per le allodole e medaglie luccicanti come contentini volti più a gratificare l’ego del praticante che a testimoniare le esperienze acquisite.