Una delle obiezioni che più spesso si possono ascoltare da chi assiste alla pratica della nostra Arte è che gli attacchi appaiono irreali. In particolare le critiche si esprimono con commenti del tipo "Nessuno attaccherebbe così", "Un aggressore reale potrebbe tentare di reagire" oppure "Tori è molto scoperto". Queste osservazioni sono spesso pronunciate come se chi parla fosse una autorità nel campo dei principi di attacco; in realtà ci sono assai poche persone che hanno allenamento ed esperienza tali da essere capaci di individuare un buon attacco, quando lo vedono.
La questione però esiste e merita di essere affrontata. Attaccare fisicamente un’altra persona richiede un certo numero di presupposti; il primo e più importante è sicuramente l’intenzione, poiché senza intenzione non c’è attacco. L’intenzione precede l’attacco ed è quella che i grandi Maestri riuscivano a "sentire" prima ancora che l’attaccante si muovesse.
Un secondo presupposto è la capacità di muovere il proprio corpo in maniera efficiente e stabile vicino alla persona da colpire o afferrare, cosa che spesso risulta difficile ai principianti, soprattutto per una insufficiente forza e scioltezza delle anche e delle gambe, tanto che i loro attacchi sembrano spesso partire dalla testa e concludersi con un improvviso balzo in avanti quando devono portare un pugno o chiudere una presa. Aldilà di predisposizioni naturali o tecniche miracolose, sono in realtà necessari molti anni di pratica severa con un buon insegnante per superare questi problemi e riuscire a portare un attacco potente con un movimento tale da assicurare dinamismo e stabilità. Un altro problema è causato dal fatto che molte persone associano alla forza le tensioni del corpo, tanto che i loro attacchi sono inficiati da loro stessi bloccando le proprie giunture articolari che invece dovrebbero essere sciolte e flessibili.
Un modo originale per osservare un efficiente movimento del corpo è quello di notare come si muove un cavallerizzo o un cow-boy. Un cavaliere allenato, che sia impegnato in un rodeo o in un torneo, ha imparato a far compiere al cavallo la maggior parte del lavoro. Grazie all’allenamento guida il cavallo con i polpacci sino ad arrivare tanto vicino al vitello da poter lanciare il suo “lazo”, ed una volta che questo è intorno al collo dell’animale, la corda è rapidamente avvolta intorno al perno della sella ed il cavallo è indotto a bloccarsi. Il risultato è che il vitello è costretto a fermarsi, cadendo solitamente sul proprio dorso, ed il cow-boy può smontare dal cavallo e finire di legare le zampe del bovino. In un attacco efficace, dobbiamo immaginare la parte bassa del corpo (dalla vita in giù) come fosse il cavallo e la parte superiore come fosse il cavaliere.
Se la parte inferiore è ben allenata questa farà la maggior parte del lavoro e la parte superiore potrà concludere l’attacco in maniera rilassata ed efficace. D’altra parte, quello che spesso si vede nella maggior parte degli attacchi è che la parte inferiore del corpo è trascinata dietro la testa o le mani, poichè l’uomo concentra la maggior parte della propria consapevolezza nella parte superiore del corpo, ed in particolare nelle mani, tendenza che comunque può essere corretta attraverso una pratica attenta. Un'altra abitudine che spesso si nota è il “congelamento” della parte bassa del colpo al momento dell’impatto, come se due cavalieri medievali impegnati in un torneo, dopo una lunga rincorsa, si arrestassero all’ultimo momento e si colpissero l’un l’altro solo spingendo la propria lancia. Specialmente nel caso di un atemi, l’arto che colpisce (mano o gamba che sia) dovrebbe “trapassare” il bersaglio, in modo tale da poter scaricare al momento dell’impatto tutta la potenza che desideriamo applicare all’attacco.
Quando si attacca in maniera corretta, l’azione deve partire dalle anche e non deve arrestarsi fino a quando l’azione non è completata, tanto da causare una specie di “inseguimento” di Uke per poter chiudere la tecnica correttamente. "Un avversario reale può reagire alla tecnica" è una delle obiezioni più frequenti. Se si guarda alla nostra Arte come un incontro competitivo dove ognuno spia le debolezze nelle tecniche dell’altro, allora attacco, contrattacco e ricerca di aperture nella guardia altrui possono andare avanti all’infinito, riducendo la pratica al pari di quella di tante Ryu oggi sportivizzate, in cui il progresso tecnico viene egoisticamente perseguito da ciascuno per poter conseguire coppe e medaglie in un incontro, magari ricorrendo a colpi sleali o proibiti contro il proprio compagno di Dojo con cui ci si è allenati sino al giorno prima.
O’Sensei Ueshiba diceva di non avere aperture, il che non significa né che aveva considerato ogni eventualità ed aveva eliminato ogni possibilità di attacco nè che fosse coperto da una sorta di corazza invisibile che impediva la penetrazione di qualsiasi attacco. La testimonianza degli uchi-deshi e dei rari filmati che abbiamo a disposizione ce lo mostrano come un uomo completamente naturale e rilassato, che dava l’impressione di essere estremamente vulnerabile ma che in effetti riusciva a fronteggiare qualsiasi attacco. L’idea di cercare una falla nella guardia del compagno di pratica scaturisce da un attacco insincero.
Se attacco realmente e improvvisamente qualcuno mi tira il tappeto sotto i piedi, l’ultima cosa di cui mi preoccupo è sicuramente l’apertura nella guardia di Tore percui, quando noi siamo consapevoli della tecnica che verrà eseguita e quindi di quello che Tore probabilmente eseguirà, sarà facile commentare "Si può fare questo o quello" oppure "Ho visto una apertura nella guardia". La pratica nel Dojo per certi aspetti simula una situazione reale, ma non lo è. Non lo è perché sia l’attacco che la tecnica sono annunciati e conosciuti a priori dai praticanti, percui la loro attenzione è rivolta alla esecuzione di “quella” tecnica in risposta a “quell”attacco,
In altri termini, se Tore si aspetta uno “shomen-uchi”, Uke potrebbe sorprenderlo con un “mae-geri” o con un “chudan-tsuki”, ma probabilmente solo perché Tore si attende quell’attacco e non altro, mentre in una malaugurata applicazione reale, non sapendo che tipo di attacco potrebbe subire, Tore sarebbe (o dovrebbe essere...) pronto ed attento per reagire a qualsiasi tipo di attacco gli venisse rivolto. La pratica sul tatami viene definita come “yoku soku keiko”, ovvero “praticare con una promessa”, Uke “promette” di attaccare shomen-uchi e Tore “promette” di applicare ippon-dori o kote-gaeshi o qualsiasi altra tecnica annunciata in precedenza.
Lo scopo del “kihon”, ovvero dell’esecuzione di tecniche di base spesso statiche e quindi per certi aspetti irreali e l’esecuzione dei “kata” (sequenze di movimenti predeterminati), non è infatti il fine ma il mezzo che i praticanti impiegano per progredire nella pratica. Questo aspetto è molto importante perché i cattivi attacchi sono spesso conseguenza di come a volte l’Arte viene appresa dagli allievi. Se i praticanti credono di dover imparare solamente ad “applicare” una tecnica ad Uke, questi sarà portato a credere di avere un ruolo quasi passivo nella pratica, dovendo limitarsi a poco più che resistere, con più o meno convinzione, alla tecnica stessa. Il risultato è che Uke finisce per "attaccare una tecnica" invece che Tore, e che questi si occupi solo della esecuzione “formale” della tecnica stessa, senza preoccuparsi della corretta ed efficace esecuzione, che vede spesso Uke assai più condiscendente di quanto dovrebbe essere, danneggiando Tore mentre crede invece di favorirlo.
Un attaccante reale non vede la sua vittima e pensa (o addirittura annuncia): "Ora mi avvicinerò e afferrerò le sue braccia con entrambe le mani, lui tenterà di eseguire uno shiho-nage omote ma non sarà abbastanza svelto ed allora io applicherò un gaeshi-waza…" così la nostra pratica deve tendere non alla memorizzazione passiva di un catalogo di decine, centinaia o migliaia di tecniche ma, viceversa, a comprender-ne i principi tramite la loro applicazione. In altre parole, lo scolaro non memorizza sui banchi gli infiniti risultati della moltiplicazione di tutti i numeri esistenti ma impara il principio della operazione, appreso il quale potrà risolvere con successo tutti i problemi che incontrerà. Quindi perché possa esistere la difesa deve esistere un attacco, e perché la difesa sia efficace e realistica anche l’attacco deve essere altrettanto efficace e realistico ed Uke deve essere ben consapevole che il suo ruolo non è quello di subire passivamente la tecnica di Tore ma quello di aiutarlo a praticare e capire, sentire insieme a lui come e perché funziona il principio e quindi la tecnica che viene applicata.
Una delle cose che ricordo di aver ascoltato per prime da Antonino Certa shihan è stato l’invito a praticare come do-uke, un uke “vivo”, reattivo ed efficace, non per mettere in difficoltà il compagno di pratica ma, viceversa, per aiutarlo a progredire al meglio.
Concludendo, come si può definire allora un buon attacco? E’ quello portato con perizia, con bravura e con la mente focalizzata sull’obbiettivo mentre d’altra parte sarà responsabilità di Tore rispettare la sincerità dell’attacco di Uke avendo cura di eseguire la tecnica al meglio e ponendo atten-zione alla sua salvaguardia fisica perché… “la pratica ci rende praticanti, ma solo la buona pratica ci rende buoni praticanti”.