Evidentemente, da che mondo è mondo, il corpo umano è stato la prima “arma” dell’uomo stesso ma lo studio degli atemi raggiunse una particolare raffinatezza in Asia diverse migliaia di anni fa; in Cina era conosciuto anche come “dim-mak” (tocco mortale), arrivando a comprendere diverse centinaia di “punti d’azione” che, paradossalmente ma non troppo, erano nella quasi totalità gli stessi impiegati a scopo benefico nell’agopuntura, nella moxa e negli altri trattamenti terapeutici della medicina tradizionale cinese.
L’introduzione delle armi da fuoco rese sempre meno decisivo l’impiego degli atemi nelle battaglie campali, ed il loro studio nell’ambito dello addestramento militare perse in parte la sua importanza, che rimase invece intatta in diverse Arti Marziali quali karate, kung-fu, ju-jutsu, nin-po, sono per citarne alcune. La stessa differenza che c’è tra lo sguazzare in acqua ed il nuotare con uno stile preciso c’è tra una percossa tirata a caso ed un atemi applicato con cognizione, considerazione che richiede una particolare riflessione: come detto l’applicazione di un’atemi richiede una attenta valutazione della forza da impiegare e della sua direzione, oltre che una precisa conoscenza del punto da sollecitare, pena il non raggiungere il risultato voluto o, peggio, causare danni irreparabili o noi o alla controparte.
La cronaca è piena di episodi in cui qualcuno, in un impeto di rabbia o di paura ha ferito gravemente o addirittura ucciso in maniera preterintenzionale con un singolo colpo. Lo studio degli atemi quindi deve portarci a considerarli (e ad impiegarli...) come fossero un’arma a tutti gli effetti, consapevoli che una percossa, sferrata senza neanche troppa forza, può decidere della nostra e altrui vita. Insieme al “come” colpire, in altri termini, bisogna avere chiara cognizione di “quando” colpire. Al pari di una pistola col colpo in canna o di una sciabola affilata, un mae-geri oppure uno yokomen o uno shuto-uchi non possono essere “affidati” a chicchessia ma vanno insegnati ed illustrati solo a coloro che abbiano maturità sufficiente ad impiegarli, anche e soprattutto durante il normale allenamento in Dojo, con attenzione e controllo, ricordando la massima che laconica ma esaustiva affermava: “un colpo, una vita”.