Pagine: 204
Dimensioni: 17 X 24
Anno di pubblicazione: 2005
Prezzo di copertina: € 18,00
“L'obiettivo principale di questo libro è di far conoscere e mostrare, secondo un metodo, diverse tecniche utili alla pratica del combattimento a mano nuda, perse, dimenticate o snaturate. Esso rappresenta una sintesi originale tra le arti marziali giapponesi e quelle cinesi, e vuole essere uno stimolo per tutti gli appassionati e i praticanti d'arti marziali affinché inizino una riflessione critica su una pratica che, per il momento, non offre loro nessun avvenire oltre i quarant'anni.”
Una presentazione simile non può lasciare indifferenti, soprattutto quando proviene da un praticante di indiscusso valore e quando la riflessione nasce da una oggettiva necessità di tutela della propria integrità fisica.
E’ un dato di fatto che le arti marziali “tradizionali” (qualunque valore si voglia dare al termine tra virgolette) nascevano in una società dove – per tutta una serie di motivi – l’attesa di vita non superava i quaranta o cinquanta anni ed erano rivolte, in aggiunta, a uomini destinati alla guerra o al combattimento, soggetti insomma, a cui molto difficilmente sarebbe capitato di morire nel proprio letto ed a cui una lussazione o una frattura potevano apparire il minore dei mali: “Il Budo è da sempre stato una pratica e non un discorso. [...] In altri tempi l’arte del samurai permetteva di uccidere e di difendersi efficacemente durante la guerra ed i duelli. Oggigiorno pratichiamo il Budo per piacere, ma se una pratica del Budo esiste questa deve essere utile ed avere un senso.”(pag. 7)
A questo si aggiunga che, senza voler mettere in discussione il valore e le conoscenze delle medicine e delle pratiche terapeutiche “ante – pennicilina”, la conoscenza della anatomia umana e le capacità di diagnostica e terapia erano enormemente diverse da quelle attuali. Se esaminiamo questa serie di aspetti privi da paraocchi fideistici e nostalgici, non sarà difficile convenire che adottare oggi metodi di addestramento psico-fisico presi paripari dai secoli andati è, nel migliore dei casi, anacronistico come utilizzare il calesse per andare in ufficio: “Studiare fedelmente l’arte del combattimento cinese o giapponese tradizionali, non vuol dire copiare il modo d’essere antico dei cinesi o dei giapponesi, ma realizzare il mio Budo, cioè quello di un giapponese dell’epoca moderna che ha fatto l’esperienza della vita europea. Per la stessa ragione non desidero affatto che i miei allievi cerchino di vivere come dei giapponesi, cosa che d’altronde sarebbe impossibile, ma che trovino attraverso la loro esperienza culturale, la loro via del Budo” (pag. 7).
Non si può certo accusare l’Autore di essere troppo reticente e diplomatico nell’esprimere i suoi concetti, anzi in più di una occasione emerge chiaramente la volontà di chiarire bene di cosa si sta parlando, come quando afferma che: “Il Budo è un arte da combattimento nella quale si ricerca la maniera più efficace per uccidere l’altro: inutile dissimulare questa verità”. (pag. 41). Fatta piazza pulite di sofismi e giri di parole, il nocciolo della questione diventa il “perché praticare?”, ed anche in questo caso Kenji Tokitsu fa una chiara dichiarazione: “Se vogliamo pervenire, attraverso le arti marziali ad una forma di educazione fisica e mentale, è indispensabile alzare la concezione che abbiamo di esse [...]. Si tratta di capire qual’è la qualità delle arti marziali e di stabilire una prospettiva d’educazione d’apprendimento che si pone tra l’arte e la scienza. E’ questo, a mio avviso, il senso dell’arte marziale del futuro.” (pag. 13) chiudendo – come si suole dire – una porta ed aprendo un portone, poiché, se è vero che: “Il paradosso del Budo è che per vincere bisogna morire. Tutte le filosofie del Budo convergono verso questa idea. Le tecniche ne sono allo stesso tempo l’espressione ed il mezzo per pervenirvi”. (pag. 16) è altrettanto vero che: “L’obbiettivo apparente del Budo è di vincere il proprio avversario. Ma questo obbiettivo cambia tonalità e peso quando lo concepiamo in tutta la sua ampiezza.” (pag. 167)
Kenji Tokitsu con questo libro non da alle stampe un manuale didattico per il praticante, anche se non mancano esercizi ed indicazioni della pratica, ma piuttosto condivide una serie di episodi storici e riflessioni personali con il fine di stimolare ciascun lettore a cercare e trovare la “propria” Via, senza rinnegare il passato e senza considerarlo come unica ed immutabile modalità addestrativa. Per procedere nel proprio operato un artista ha bisogno di strumenti, ma questi ultimi nulla possono senza chi li sappia ben adoperare, così è anche per l’artista marziale e con i suoi esercizi, infatti: “Un kata non è che una sorta di guscio, vi manca l’organismo per far sì che abbia il suo seno pieno” (pag. 89) e “La forma ripetuta non è necessaria che per pervenire al suo superamento” (pag. 91).
Iconoclasta per qualcuno, coraggioso per altri, sicuramente Kenji Tokitsu rappresenta un praticante ed un insegnante più unico che raro nel panorama marziale mondiale, non foss’altro che per il suo essere ponte ideale tra l’Oriente di un tempo e l’Occidente di oggi. Si arriva alla fine del libro con molti più dubbi che certezze, ma sicuramente stimolati nel prendere nelle nostre mani l’onore e l’onere della nostra pratica e del nostro progress. Le parole con cui l’Autore chiude il suo libro sono illuminanti, e ancora una volta non lasciano spazio a equivoci: “La via del Budo è come una sorta di ricerca della pietra filosofale. La realizzazione dell’efficacia è la concretizzazione di una qualità dell’essere e non solo un obbiettivo in sè. La filosofia resta non detta, ma è indefinibile. E’ in questo senso che il Budo è, secondo la formula spesso ripresa dal Giappone, una formazione dell’uomo. (pag. 192).
Un difetto questo libro lo ha, e non sono le fotografie che pure potrebbero essere migliori, ma il fatto che le vicissitudini dell’Editore lo hanno messo fuori catalogo e reperibile solo tramite reminder e librerie particolarmente fornite, motivo in più per raccomandarne caldamente l’acquisto a chiunque abbia la fortuna di incontrarlo su qualche scaffale o bancarella.