E’ bene dire subito che siamo anni luce lontani dai wuxia ipertrofici targati Zhang Yimou ("Hero", "La foresta dei pugnali volanti") o Tsui Hark ("Seven sword"), così come dai samurai pop dello Zatoichi kitanesco, per tacere del “far-west oriented” Tom Cruise.
Siamo invece nel campo dei chanbara eiga (i film che narrano gesta di samurai), dove aldilà delle sanguinolente battaglie e delle trascinanti scene a cavallo che fanno da ‘sfogo’, spesso il vero centro del discorso è lo scontro tra le voci di dentro (l’interno) e la legge imposta (dall’esterno) dal tempo storico: sono dei drammi fondati su enormi conflitti interiori in cui la figura del samurai è il simbolo della complessità, cioè la figura messa a guardia di un confine contro il quale spesso, costretto dagli eventi, è egli stesso a scontrarsi ferocemente.
In una realtà come la nostra, in cui ad ogni angolo di mondo si uccide per motivi più o meno ridicoli e per principi più o meno fraintesi, la storia di un uomo che per amore prova a ribellarsi ad un codice che gli imporrebbe l'assassinio fa un gran bene. Yamada Yoji è regista intenso e raffinato, il cui nome è indissolubilmente legato alla cultura giapponese grazie alla saga di Tora-san (di cui - nell'arco di venticinque anni - ha diretto 46 episodi su 48), ma che ha dimostrato di possedere una visione ispirata e intimista sulla realtà dell'uomo contemporaneo e sulle difficoltà che incontra nella vita di ogni giorno.
In "Tasogare Seibei" a sorprendere è la fulgida freschezza narrativa, la semplicità dello sguardo che riesce a costruire un mondo pulsante e quasi incantato nel vivido susseguirsi di sequenze minimali - all'apparenza prive di qualsiasi attrattiva, eppure avvolte in una spiritata, fuggevole intensità che le rende uniche, irripetibili. La storia raccontata da questo incredibile regista settantenne è un viaggio realmente crepuscolare nei meandri di un'epoca di passaggio, nella mente di un uomo in difficoltà, e nondimeno refrattario a perdere il legame fondamentale con chi ama, nonostante l'asprezza costituzionale del mondo che lo circonda.
La parabola di Seibei diviene così espressione di un incondizionato umanesimo, un ottimismo gioioso che non si nasconde dietro a semplificazioni consolatorie, ma che anzi ha modo di esplodere grazie alle insondabili crudeltà del destino. Yamada dimostra così non solo di saper gestire con acume la complessa trama di rapporti tra i personaggi, utilizzando una messa in scena calibrata a seconda del grado di importanza del soggetto con cui ci si rapporta o del ‘peso’ dell’aneddoto mostrato, ma di essere in grado di generare con poche pennellate ritratti dettagliati, certosini, di universi altrimenti a noi interdetti.
Con alcune sequenze che rilasciano momenti di assoluta vertigine: tutto il duello con il bastone, la fine della conversazione con l’amico-confidente che diventa penetrante denuncia sociale, il combattimento finale. Dentro l’occhiata che il vecchio samurai ribelle rivolge a Seibei c’è l’acquisita coscienza della fine di un mondo, che si sposa con la repentina, inebriante, sensazione di avere ancora una possibilità da sfruttare per salvarsi, e scappare di nuovo liberi oltre la montagna. Nei tagli sanguinanti offerti da Seibei, invece, il gesto dovuto di un servitore fedele che riconosce anche nel proprio destino ‘minore’ l’inestimabile bellezza dell’esistenza.
Provate a non farvi spaventare dal contesto "alieno", né dall'assenza di doppiaggio: è un racconto bellissimo e assolutamente da vedere.