I diversi gradi di maestria nell’arte vengono invece indicati con termini diversi (shihan, renshi, kyoshi, hanshi, ecc.) antecedenti la gradazione in Dan ed aventi in comune tra loro la particella –shi- che, per l’appunto, indica la maestria e la preparazione in una Arte tradizionale giapponese, marziale o no che sia. Quindi il soke non è necessariamente il “più bravo” della Ryu, se non altro perché spesso la sua anzianità di pratica è inferiore di molti anni rispetto a quella degli uchideschi (allievi interni) più anziani, ma è però colui che, quasi sempre per diritto di sangue, ha il compito di rappresentare la scuola, preservandone tradizioni, riti ed usanze per trasmetterle ai suoi successori così come le ha ricevute.
Nelle arti marziali tradizionali di origine nipponica quindi, chi si proclama soke o è l'erede di una famiglia in cui la genealogia lo autorizza a potersi fregiare di quel titolo (una specie di “principe ereditario”, insomma che può anche essere adottato qualora il soke in carica non abbia figli in grado di succedergli), oppure ha fondato un suo stile, completamente nuovo o più spesso derivato da una Ryu già esistente, cosa che accadeva, ad esempio, quando un allievo particolarmente preparato fondava una “ha-Ryu”, ovvero una “sotto-scuola” che, partendo da tecniche e principi della Scuola madre, li applicava o sviluppava in maniera più o meno differente da questa. Tertium non datur, dicevano i nostri padri latini, al di fuori di queste due possi-bilità non vi sono eccezioni e chiunque affermi di essere il soke di una Ryu che non ha fondato lui o un membro della sua famiglia è credibile tanto quanto l’indimenticato Totò quale “Principe di Capri”.