Per comprendere il seppuku bisogna tornare allo studio dello zen praticato dai samurai, secondo cui la morte e la vita erano sullo stesso piano e quindi andavano affrontate con lo stesso atteggiamento distaccato. Per lo “Hagakure” il guerriero deve pensare continuamente alla morte, sia alla mattina quando si alza che la sera prima di dormire, non come ossessione ma in modo che la sua mente sia preparata per affrontarla al meglio quando sarà il momento.
Quando le circostanze lo permettevano il seppuku veniva preceduto da un bagno purificatore e da un banchetto offerto agli amici dove il samurai dimostrava rilassatezza, serenità e autocontrollo. Alcune volte si scrivevano persino brevi poesie e versi che descrivevano lo stato d'animo e davano l'addio alla vita. Seduto su un panno bianco (o su un cuscino) il samurai si squarcia il ventre con un movimento da sinistra verso destra e se ce la faceva risaliva verso l'alto (jumonji), per dimostrare la ferrea volontà di morire, l'arma utilizzata è la spada piccola (wakizashi) o il pugnale (ko-ga-tana).
Nella fase culminante del rituale, se il samurai non moriva e soffriva ancora dopo lo squarcio infertosi, un aiutante (kaishakunin), solitamente il migliore amico, posizionato alle sue spalle, gli tagliava la testa con un taglio netto di katana, per abbreviargli la sofferenza. Il suicidio in Giappone, al contrario che nella tradizione cattolica, non è visto né sentito come fuga dalla vita o come atto di debolezza e di disperazione, ma come espressione del libero arbitrio, della possibilità di saper scegliere il tempo ed il luogo in cui porre fine alla propria esistenza terrena, con un atto cerimoniale, in cui l'esecuzione impeccabile e l'irrevocabilità del gesto testimoniano la fermezza, la determinazione e la libertà dello spirito di chi lo compie.