Il secondo elemento da considerare è la laboriosità della realizzazione di una lama giapponese; a partire dalla selezione della materia prima e procedendo lungo le varie lavorazioni e rifiniture che potevano impegnare un Maestro spadaio per più di un anno per ciascuna lama prodotta. Ed anche l’artigiano stesso, che in occidente aveva un aspetto rozzo e sporco, immerso in una bottega piena di fuliggine e calore, in Giappone assumeva una identità più vicina a quella di un sacerdote che a quella di un fabbro, tanto che nell’arte della forgiatura di lame diedero ottima prova perfino nobili di corte e imperatori.
Da un lato abbiamo un apparente stop tecnologico, dall’altro un dispendio di energie, entrambi incomprensibili finchè si limita l’esame alla sola arma. Infatti, mentre in occidente si perfezionava l’arma a discapito del soldato, in oriente oggetto del continuo perfezionamento era il soldato che l’arma doveva usare. In occidente la guerra, negli ultimi secoli, è stata sempre più “di massa”, coinvolgendo sul campo di battaglia contadini, borghesi e popolino spesso arruolato a forza e sottoposto ad un sommario addestramento. Le battaglie venivano vinte più per la quantità delle forze in campo che dalla loro qualità, provocando così la progressiva perdita del “mestiere” di soldato e delle relative “Arti di combattimento”, un tempo codificate in manuali come il “Marozzo”, il “Capoferro” o il “Flos Duellatorum” ancora oggi fonte di preziosa conoscenza per gli studiosi e gli appassionati.
In Giappone invece i soldati costituivano una vera e propria classe sociale, seconda solo ai nobili di corte, che invece di ricorrere alla tecnologia per l’elaborazione di armi più sofisticate, impiegarono le proprie energie per migliorare sé stessi. Influenzati dal buddhismo, dal taoismo e dalla autodisciplina prescritta dal confucianesimo, cercarono una sempre più profonda simbiosi con l’arma, una sempre più ampia sintonia tra corpo, mente e anima. Questa disposizione ha permesso di rendere armi micidiali oggetti banali come bastoni, attrezzi d’uso quotidiano come i sai, i nunchaku, o i tonfa, e perfino di rendere letali gli stessi arti del corpo umano.
Il fatto che la spada giapponese fosse relativamente semplice non significa che peccasse nella qualità, anzi. Come quasi tutti sanno la tecnologia degli spadai nipponici è assurta a vertici di perfezione a tutt’oggi insuperati, sia nella qualità dei materiali che nelle tecniche di forgiatura. Da queste brevi note appare chiaro che mentre in Occidente i è ricercata una maggiore efficacia guardando “all’esterno” dell’uomo, in Oriente l’indagine è stata rivolta “all’interno”, mentre in Occidente le armi (e non solo) diventavano sempre meno dipendenti dalla abilità dell’utilizzatore (si pensi alle mine, alle bombe a grappolo o ai fucili mitragliatori a raffica, solo per citare alcuni esempi), in Oriente era il soldato che si “forgiava” sulle caratteristiche della lama, per essere in grado di offrirle il meglio.
La katana infatti era tanto micidiale quanto delicata: un colpo portato con precisione poteva tagliare un armatura ma un fendente maldestro poteva mandarla in frantumi. L’arma aveva - per il samurai giapponese - un anima, delle qualità quasi umane: vi erano spade violente ed assetate di sangue ed altre sagge e in grado di assicurare la pace, lame irruenti e vigorose ed altre calme e riflessive. Una katana poteva dare il meglio di sé solo a chi la conosceva e conosceva il modo di impiegarla, non perdonando faciloneria e improvvisazione.
Ecco che, allora come oggi, chi impugna una katana non può e non deve fare a meno di chiedersi se è adeguato all’arma che sta brandendo, se è all’altezza degli sforzi fatti da chi ne ha lavorato l’acciaio con infiniti colpi di martello, se ha il coraggio di sferrare un fendente che, nelle intenzioni, potrebbe essere l’ultimo. Si deve penetrare il proprio sentire intimo con coraggio e determinazione, squarciare l’anima come l’affilato acciaio squarcia il ventre durante il seppuku, guardare in faccia i propri ego ed avere la forza di affrontarli pronti a vincere o a soccombere con un unico, definitivo colpo, essere consapevoli che negli interminabili attimi del caricamento, del taglio, dello zanshin la lama potrà rimbalzare facendoci sentire goffi e maldestri oppure potrà affondare decisa, liberandoci dalle nostre paure ma esponendoci al rischio della nostra superbia; in questi momenti la lama deve tagliare la nostra anima, tranciando i legami delle nostre paure e liberando le nostre qualità.
Non era per tutti nei secoli scorsi, non è per tutti al giorno d’oggi, quando solo chi ha il coraggio di chiedersi “per chi taglia la Katana” può brandire una lama pronto a tagliare e ad essere tagliato.