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Jita kyo ei, insieme per progredire

7/14/2010

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Nelle arti marziali, i termini tori e uke sono noti fin dalle prime lezioni: oltre al corretto modo di salutare e di annodarsi la cintura (obi), infatti, ai principianti viene subito insegnata la differenza che c'è fra colui che esegue una tecnica (tori) e colui che la subisce (uke); e fin dall'inizio il principiante mostra una malcelata insofferenza nel vestire i panni di uke, preferendo di gran lunga il ruolo più attivo, più divertente e, per certi versi, più gratificante di tori.

Questa insofferenza accompagna a lungo il praticante, e il principiante, divenuto ormai esperto, continua a vedere uke come una figura di secondo piano rispetto a tori: è senz'altro molto più piacevole fare che non subire! Nelle nostre Arti, poi, questa sensazione di fastidio nei confronti del ruolo di uke è ancora più marcata: uke, infatti, deve cadere, deve fare il sacco, e, si sa, cadere ferisce il corpo (il tatami è duro!) e lo spirito.

Ferisce il corpo, perché ormai l'arte di cadere (ukemi waza) è patrimonio di pochi, e quanto questo sia vero lo si scopre, magari, quando ci si deve preparare ad eseguire un esame o una dimostrazione: ed ecco, allora, che si apre la caccia a quel raro personaggio che riesce quasi miracolosamente a volteggiare in aria, cadere e rialzarsi per decine di volte facendo fare un figurone a tori; ferisce lo spirito perché cadere ai piedi di un altro è sempre un duro colpo per il proprio ego. Inutile sottolineare che questa concezione di uke è completamente errata: il suo ruolo, infatti, non solo non è assolutamente secondario rispetto a quello di tori, ma per certi versi è addirittura più importante.

Naturalmente, questo è solo un esempio, perché l'importanza che riveste uke nell'ambito della pratica è fondamentale. A dispetto, infatti, del significato etimologico del termine (uke deriva dal verbo ukeru, che significa "ricevere") uke è "colui che dà", colui che si mette a disposizione del compagno, colui che si offre affinché tori possa progredire nella pratica; e tutto questo, nel pieno spirito di jita kyo ei, cioè "insieme per progredire". Appare, quindi, evidente che fare uke è tutt'altro che facile: occorrono particolari qualità, tecniche e mentali, per svolgere questo compito nel modo più proficuo.

Innanzi tutto, e qui parliamo dal punto di vista prettamente tecnico, uke deve padroneggiare l'ukemi waza: saper cadere bene è indispensabile, soprattutto se il compagno di pratica non è un esperto; l'abilità nella caduta, infatti, permette ad uke di essere proiettato senza danno anche se la tecnica eseguita da tori non è proprio "pulita". Poi, chiaramente, deve conoscere perfettamente la tecnica per la quale sta svolgendo la funzione di uke (quindi, principio, squilibrio, opportunità...), per essere in grado di aiutare veramente tori attraverso un corretto atteggiamento del proprio corpo: non dove, cioè, essere troppo rigido o troppo morbido, oppure deve muoversi in un certo modo per offrire a tori le necessarie opportunità o creargli le giuste difficoltà (sute geiko), o ancora deve attaccare con sincerità quando, per esempio, uke si sta esercitando nei controcolpi (kaeshi waza).

Oltre alla conoscenza tecnica, poi, non meno importante è l'atteggiamento mentale: lasciando da parte il proprio ego e abbandonando ogni idea di sé, deve mettersi completamente a disposizione del compagno e volere che l'altro impari, che progredisca. In conclusione, il ruolo di uke è importantissimo e molto difficile, ed è essenziale capirlo fin dall'inizio della pratica: anche un principiante, infatti, deve poter svolgere questa funzione e, pur con tutti i limiti della propria poca esperienza, deve farlo con la più assoluta sincerità e dedizione.
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