Tra questi ultimi c’è Shiaku Shinsakon Nyudo, un samurai di rango non molto elevato che, prima di eseguire il seppuku, chiamò il figlio maggiore Saburozaemon e gli disse: “Kamakura, circondata dai nemici, sta per cadere. Io sto per seguire il destino del mio signore come suo leale vassallo. Tu sei ancora giovane e non hai obbligo della fedeltà verso di lui perché non sei ancora entrato al suo servizio. Sfuggi alla tragedia e diventa un monaco: al servizio del Buddha potrai celebrare i riti per i nostri spiriti e nessuno ti biasimerà se ti salverai per fare ciò”.
Il padre fermò il ragazzo e gli disse: “Non avere fretta, tu devi seguire l’ordine ed aspettare la mia morte”. Shiro allora rinfoderò il suo wakizashi e sedette tranquillamente davanti al padre dopo avergli portato, come questi gli aveva chiesto, uno scanno e il necessario per scrivere. Il samurai si sedette a gambe incrociate, sciolse con calma l’inchiostro, vi intinse il pennello e scrisse:
Tenendo questa spada,
io taglio in due il Vuoto;
nel mezzo del grande fuoco,
un fiume di rinfrescante brezza!
Si trattava del suo jisei (poema di morte), terminato il quale il fedele vassallo compì il rito del seppuku, completato dal figlio Shiro che, per abbreviarne la sofferenza, tagliò di netto la testa del padre con la stessa spada con cui si uccise subito dopo. Superiamo l’orrore e lo sgomento per un episodio del genere e pensiamo agli ultimi momenti della vita di questo samurai: egli vede perire nello stesso momento quanto ha di più caro: il suo signore, la sua casata, la propria famiglia, la sua stessa vita. Una condizione che avrebbe messo a dura prova anche l’animo più forte e che pure egli affronta con tranquillità, componendo con mano ferma la poesia con cui prendeva congedo dal mondo.
Lo jisei è in effetti una forma particolare di poesia, composta da un samurai poco prima di morire per mostrare, forse a sé stesso prima che agli altri, la sua forza d’animo. Questo estremo saluto non veniva redat-to solamente in caso di seppuku ma anche nel clamore di una furibonda battaglia, quando un samurai ferito si rendeva conto di essere giunto alla sua ultima ora. La cosa a noi moderni occidentali può apparire a prima vista sorprendente, ma bisogna considerare lo spirito della società nipponica e quello proprio dei samurai.
In Giappone era diffuso e coltivato il mono-no-aware (lett. “la commozione delle cose”), un particolare tipo di sensibilità ed attenzione che portava ad immedesimarsi, a percepire ed a partecipare con emozione anche al più piccolo ed apparentemente banale evento naturale.
Possiamo citare il conosciuto esempio della fioritura e della rapida caduta del fiore di ciliegio che è assurto a simbolo dei samurai e del Giappone stesso, i famosi haiku oppure i meno noti hai-kai, brevi poemi di tre o cinque versi, composti con spontaneità ed ispirati da episodi della vita quotidiana, come i seguenti:
Un fiore caduto
che risale al suo ramo?
Ah, è una farfalla.
Oh, queste lucciole
confuse con l’acquazzone d’estate.
Che pioggia di fuoco!
Se questa condizione ha sicuramente favorito l’ingresso del sussurro della poesia tra il fragore delle armi, l’ulteriore spinta è stata data dal fatto che molti samurai erano praticanti dello Zen ed alcuni addirittura monaci regolari; la pratica di questa disciplina favoriva la meditazione, l’introspezione e la attitudine a considerare caduche le cose di questo mondo, tutte condizioni che venivano espresse in brevi componimenti poetici ed a maggior ragione in quello ultimo che rappresenta-va, per certi aspetti, il loro testamento spirituale.
L’uso di comporre lo jisei era parte integrante dell’etica samurai e rimase costante nel tempo; abbiamo iniziato citando un samurai dei primi decenni del 1300, continuiamo ricordando due personaggi storici, due generali che hanno contrassegnato la seconda parte del XVI° secolo, acerrimi nemici, valorosi soldati e monaci zen: Takeda Shigen e Uesugi Kenshin. Il primo, ferito da una freccia, sentendo avvicinarsi la fine disse ai suoi amici: “Quando avrò reso l’ultimo respiro, gettatemi nel lago e mantenete segreta la mia morte, non voglio che i miei soldati si scoraggino” (episodio questo raccontato nel film di Kurosawa “Kagemusha – l’ombra del guerriero”) e poi compose i seguenti versi:
“Esso” è lasciato alla sua naturale perfezione;
e questa non ha alcun bisogno di ricorrere
a colorazioni artificiali o a ciprie
per apparire bella.
I versi si richiamano alla letteratura zen e si riferiscono alla assoluta perfezione della Realtà ultima dalla quale veniamo, nella quale torniamo e nella quale ci troviamo. Un mondo di molteplicità che va e torna mantenendo dietro le apparenze una bellezza perfetta e immutabile. Kenshin seguì Shingen cinque anni dopo, componendo due poesie, la prima scritta in cinese, la lingua usata dagli intellettuali e dalle classi colte:
Anche una vita generosa
non è che una coppa di sake;
una vita di quarantanove anni
è passata in un sogno;
io non so cosa sia la vita, né la morte.
Gli anni passano: ma tutto è sogno.
e la seconda scritta in giapponese:
I Cieli e gli inferni sono lasciati indietro;
io sto nell’aurora nella luce della luna,
libero dalle nubi dell’esistenza condizionata.
Ai primi anni del 1700 risale invece l’episodio dei “47 ronin” che ha ispirato innumerevoli opere artistiche e che vide come sfortunato protagonista il Daimyo Asano Takumino-kami che, prima del seppuku ordinatogli, scrisse:
Passa il vento, cadono i fiori,
più che la loro scomparsa,
quella della primavera mi sta a cuore.
Come spiegarmi?
in cui esprimeva il suo rammarico non per la perdita della vita, ma per l’impossibilità di vendicarsi. Andiamo avanti negli anni, arriviamo al ventesimo secolo, agli anni in cui i samurai, pur aboliti come classe sociale, rimanevano vivi nel ricordo, nell’etica morale e nei principi di alcuni uomini che non accettavano la scomparsa dei valori tradizionali che per secoli avevano retto la nazione del Sol Levante e citiamo due episodi che ebbero vasta risonanza per le modalità del gesto e la personalità dei protagonisti.
Il primo vede protagonista il generale conte Nogi, che alla morte dell’imperatore compì uno junshi (lett. “morire seguendo”) dopo aver composto due brevi jisei:
Da lontano mi prostro ed adoro
gli augusti resti del mio Imperatore
che è salito nella luce degli dei.
Il mio imperatore ha lasciato
questo mutevole mondo,
e perciò io accompagno
gli augusti resti del mio gran signore
che ho sempre adorato e venerato.
Il secondo episodio è quello del seppuku compiuto per protesta dallo scrittore Yukio Mishima e dagli altri componenti del “Tate-no-kai”, un gruppo paramilitare fondato dallo scrittore stesso ed ispirato ai tradizionali valori nipponici. Il 26 novembre del 1970 Mishima fu ricevuto insieme a quattro suoi compagni dal generale Mashita, comandante in capo delle Forze Armate dell'Oriente, nel suo ufficio in una caserma nel centro di Tokyo.
Il gruppo prese in ostaggio l’alto ufficiale e si barricò nell’ufficio, chiedendo di par-lare ai soldati riuniti. Più di mille uomini si riunirono nella piazza d’armi ad ascoltare lo scrittore che auspicò e sollecitò un ritorno alle tradizioni nipponiche, schernito e deriso dai soldati radunati. Terminato il discorso, Mishima compì l’annunciato seppuku, esclamando: "Viva l'Imperatore, Viva il Giappone!" lasciando, insieme ai suoi compagni che lo seguirono nel suo destino, gli jisei che riportiamo di seguito:
Prima brina, oggi,
per il guerriero
che tante volte
si è indurito
al suono della spada sfoderata.
(Yukio Mishima)
Non importa cadere.
Prima di tutto.
Prima di tutti.
E' proprio del fior di ciliegio
cadere nobilmente
in una notte di tempesta.
(Yukio Mishima)
Oggi, nel giorno atteso,
a conoscere quello
che è racchiuso nel mio cuore,
che da tempo ha giurato,
sarà la sola tempesta?
(Masakatsu Morita)
Ah, l'amor di patria
che brucia come il fuoco!
Esso durerà fin quando
avrò la forza di non
distogliere lo sguardo
da Sua Maestà Perenne.
(Masayoshi Koga)
Tra una nuvola e l'altra
cade bianca la neve.
E' il cuore della poesia
che canta il Fujiyama
la vera via del guerriero.
(Masayoshi Ogawa)
Non fa differenza combattere
da leone o tigre.
Se è per la patria,
anche la vita del guerriero
e' accolta tra gli dei.
(Hiroyasu Koga)