Stando così le cose, coloro che conoscevano le corrette modalità di esecuzione delle tecniche non avevano difficoltà a ricondurle ai rispettivi nomi, in funzione dei gesti o delle posture dagli stessi nomi richiamati, cosa invece impossibile a chi avesse voluto comprendere il principio efficace sotteso ad una tecnica o anche solo il modo di effettuarla partendo solo dal nome, senza averla mai eseguita o almeno vista eseguire. Al contrario, le arti marziali giapponesi furono patrimonio della casta guerriera che, soprattutto agli inizi della sua epopea storica, badava più alla efficacia pratica che alla elevazione spirituale. Anche in questo caso la segretezza era d'obbligo, tanto che ogni clan aveva il proprio patrimonio di tecniche che veniva insegnato, lontano da occhi indiscreti, ai soli membri della famiglia.
Nel caso del Daito-Ryu, dopo un millennio di riserbo, fu Dai Sensei Sokaku Takeda il primo a insegnare anche a persone non legate al suo clan familiare e che solo a partire dai primi anni '90, presso l'Hombu Dojo di Abashiri, vennero accettati allievi occidentali, tra i quali Antonino Certa shihan. Proprio perchè destinate ad una applicazione pratica piuttosto che ad un apprendimento teorico, queste tecniche avevano un nome che ne indicava con immediata chiarezza il "principio di funzionamento". Si spiega in questo modo la presenza di tecniche con lo stesso nome ma (apparentemente) diverse tra loro, come può essere il caso, ad esempio, degli hiji kujiki nella nikajo che, sia pure in modi differenti, basano la loro efficacia su una leva a pressione (kujiki) sul gomito (hiji).
Nel caso delle discipline cinesi quindi, lo scopo, oltre alla autodifesa ed alla tonificazione fisica, era quello di favorire la meditazione e la concentrazione dei monaci (si veda come ancora oggi il Tai Chi Chuan venga praticato proprio per questi scopi) ed anche i nomi delle tecniche, per quanto possibile, contribuivano a questi risultati ed erano frutto e stimolo di elaborati processi immaginifici mentre, nel caso delle discipline giapponesi, i nomi delle tecniche erano dei "non-nomi" che descrivevano l'effetto o la modalità esecutiva della tecnica stessa, non essendoci la necessità di parlarne in astratto, separando la definizione dalla esecuzione. Un po' come se per individuare una pinza, da un verso la si chiamasse "Becco dell'aquila dalle ali spiegate" e dall'alto, come "l’attrezzo che stringe".