Per la prima recensione dell’anno volevamo proporre ai nostri lettori qualcosa di diverso rispetto al solito, e crediamo che risponda egregiamente allo scopo un libro che non è un libro, scritto da insegnanti che non tengono corsi o seminari sulla materia che descrivono pur essendo molto competenti e che non contiene descrizioni passo-passo di tecniche preordinate pur essendo molto ricco di illustrazioni e spiegazioni. Con una lungimirante attenzione alle nuove frontiere della editoria, il libro - intitolato “Il mio Kali” - è proposto per la vendita per corrispondenza in formato PDF su un CD.
La recensione che segue è stata scritta nel 2007, quindi alcuni particolari che oggi sono quasi la normalità, come ad esempio il nuovo modo di proporre un libro per la “stampa fai da te”, l’invio del volume in formato digitale e l’approccio verso il lettore mediato tramite un sito internet, cinque anni fa erano assai più rare ed innovative, ad ulteriore testimonianza della lungimiranza degli autori. Il tempo trascorso non diminuisce però la validità dell’opera che, oggi come allora, rimane assolutamente attuale ed utilissima, tanto all’esperto che al principiante. (N.d.R.)
Per la prima recensione dell’anno volevamo proporre ai nostri lettori qualcosa di diverso rispetto al solito, e crediamo che risponda egregiamente allo scopo un libro che non è un libro, scritto da insegnanti che non tengono corsi o seminari sulla materia che descrivono pur essendo molto competenti e che non contiene descrizioni passo-passo di tecniche preordinate pur essendo molto ricco di illustrazioni e spiegazioni. Con una lungimirante attenzione alle nuove frontiere della editoria, il libro - intitolato “Il mio Kali” - è proposto per la vendita per corrispondenza in formato PDF su un CD.
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IMMAGINI ED EMOZIONI DEL VI° CAMPIONATO EUROPEO TCFE 7-9 DICEMBRE 2012-12 LIGNANO SABBIADORO12/27/2012 Immagini di alcuni momenti del campionato europeo TCFE svoltosi a Lignano ad inizio dicembre, raccolte e montate da Paolo Scarpa. (Traduzione e adattamento dell’articolo disponibile online in http://www.e-budokai.com/hibuki/yawara.htm) Molte delle Arti marziali classiche giapponesi che impiegano armi sono state originate da niente di più che dall’adattamento alle necessità di combattimento di tecniche ed attrezzi di uso comune da parte dei contadini durante l’era feudale. Essendo proibito per legge ai cittadini il portare spade come i samurai, questi adottarono frequentemente armi alternative per la loro difesa personale. Questo spesso includeva l’uso creativo di oggetti comuni che potevano essere impugnati. Questi erano spesso chiamati “mijikimono”, che letteralmente può tradursi come “oggetto piccolo, disponibile, pronto all’uso”. Pipe da tabacco, coperchi di recipienti e perfino spilloni decorativi per capelli erano usati per scopi di autodifesa. Le scuole di jujutsu spesso compresero nel loro curriculum l’impiego di armi facilmente facilmente celabili nell’abbigliamento, chiamate “hibuki”, termine che può essere tradotto come “arma segreta” o “arma nascosta”; una tra le più popolari fu sicuramente lo “yawara-bo”, a volte indicato semplicemente come yawara. Il kanji “yawara” significa “flessibilità” oppure “allontanare”; lo stesso kanji si può pronunciare come “ju” nei termini come “judo” o “ju-jutsu” mentre “bo”, il secondo kanji, significa semplicemente “bastone”. (Traduzione ed adattamento di “Uchidachi & Shidachi” di Nishioka Tsuneo, disponibile presso http://koryu.com/library/tnishioka1.html) L’articolo seguente è la traduzione di un capitolo del libro di Nishioka Tsuneo intitolato “Budo-teki na Mono no Kangaekata: Shu, Ha, Ri” (Budo Via del Pensiero: Shu, Ha, Ri). La traduzione dal giapponese è spesso problematica a causa della ambiguità propria dello stile tradizionale di scrittura dei saggi nipponici. Con l’obbiettivo di chiarire le idee dell’autore e di presentare al meglio il suo pensiero, il testo originale è stato arricchito con una serie di conversazioni personali avute con altri autori, con lo scopo di trasmettere la sensazione dell’insegnamento trasmesso dal maestro al discepolo. Si noti che in questo articolo i suffissi –do (Via) e –jutsu (abilità o pratica) sono usati nella accezione giapponese, che non fa una distinzione netta e precisa tra i due termini. In particolare l’autore non ritiene che questi rappresentino due entità separate, quanto differenti aspetti di una singola realtà, che viene a volte definita Budo, altre volte Bujutsu, percui quando nell’articolo seguente varrà impiegato l’uno o l’altro termine, questo dovrà intendersi come comprensivo sia della definizione relativa tanto alle arti classiche (Ko Ryu) quanto a quelle moderne (Gendai Budo). L’articolo comincia con una disanima del concetto giapponese di “Rei”, termine che presenta una notevole difficoltà di traduzione; anche se infatti può essere tradotto come “decoro”, “etichetta”, “cortesia”, “educazione”, nessuno di questi termini corrisponde completamente al concetto giapponese, così si è preferito lascialo non tradotto, immaginandolo come la qualità e l’essenza delle corrette relazioni tra individui. Diane Skoss (traduttrice) ------------------------------------------------------------------------ Il cuore del bujutsu è il “rei” ed è responsabilità dell’insegnante trasmettere questo concetto agli allievi. Se ciò non avviene, questi ultimi possono tenere comportamenti scorretti e perdere il vero significato dell’addestramento. Sfortunatamente, al giorno d’oggi ci sono tanti esempi di abuso di potere nel Budo giapponese e solo pochi maestri insegnano correttamente i principi del Budo. il Rei nel Budo è diventato artificiale, somigliando alla gerarchia militare nipponica “vecchio stile”. Il vero significato del Rei non è più espresso e vediamo preservata solo la parte peggiore delle tradizioni e cultura giapponesi, cosa che rende necessario trovare un modo per cambiare questa situazione. Il Bujutsu è guidato dal Rei e l’istruttore agisce in maniera da condurre idealmente i suoi studenti verso un traguardo più elevato ma alcune persona, anche abili o in possesso di un grado elevato, mettono da parte ciò che dovrebbero aver imparato circa il Rei. Coloro i quali omettono di praticare così diligentemente da migliorare lo spirito così come migliorano la tecnica è come se dimenticassero l’umiltà del vero Rei e finiscono per diventare irrispettosi e orgogliosi. (Traduzione ed adattamento dell'originale inglese: http://www.e-budokai.com/hibuki/tessen.htm) In aggiunta al daisho (Letteralmente “grande piccola”; con questo termine si indica la coppia di spade che costituivano l’armamento “di base” del samurai, una lunga ed una corta) i samurai spesso erano dotati di altre armi, semplici e facilmente celabili agli occhi dell’avversario. Queste erano usate quando non si era dotati di altre armi oppure, in qualche caso, quando era preferibile non uccidere o ferire gravemente l’attaccante. Le varie Ryu (Scuole) marziali del periodo Tokugawa (Detto anche periodo Edo, è il periodo che va approssimativamente dal 1603 al 1868) insegnavano frequentemente le modalità di impiego di una vasta gamma di armi corte facilmente occultabili nell’abbigliamento quotidiano e specificamente previste per la autodifesa. Sia i samurai che i cittadini comuni consideravano il sensu (ventaglio pieghevole) un importante accessorio di abbigliamento; solitamente tenuto in mano o infilato nella obi (cintura), il ventaglio pieghevole giocava un importante ruolo nella etichetta giapponese, specialmente nelle occasioni formali. Forse perché considerato come un oggetto comune, questo ventaglio venne trasformato in una efficace arma “da lato” apportandogli solo piccole modifiche. Nacque così il tessen (letteralmente “ventaglio di ferro”), che poteva essere realizzato o come un ventaglio pieghevole con stecche d’acciaio, o come un ventaglio fisso avente la forma di quello pieghevole ma realizzato in un unico pezzo di legno o acciaio. “Quando vi ucciderete maestro?” di Antonio Franchini editore Marsilio, ISBN: 8831765086 Nato a Napoli nel 1958 Antonio Franchini ha cominciato molto presto a lavorare nell'editoria ed a tutt'oggi vive e lavora a Milano come editor della narrativa italiana per Mondadori. In questo libro di meno di 200 pagine pubblicato nel 1996 l’autore parla delle sue due grandi passioni, il combattimento e la letteratura, scoperte in gioventù e coltivate con il passare degli anni. Con buona pace della dicotomia corpo/spirito o - più brutalmente – di quella tra teoria e pratica, ancor più aggravata dalle nuove frontiere tecnologiche percui si può avere la “fortuna” di incontrare su forum di discussione telematica esperti che conoscono a menadito curriculum di tecniche o genealogie di Scuole marziali senza aver versato molto sudore su ring o tatami, così come può accadere di incocciare in vere e proprie “macchine da guerra” che non hanno la minima consapevolezza dei principi alla base dell’Arte praticata, l’autore spiega che il combattimento non è solo 'corpo' e la letteratura non è solo 'spirito' e che entrambi sono un continuo, appassionato scontro con il proprio limite. Perché, sia le discipline che insegnano a incrementare la forza fisica sia quelle volte a allargare il patrimonio culturale non nascondono un analogo destino di sopraffazione, due volontà di potenza tra cui è difficile istituire una gerarchia. (traduzione e adattamento da http://www.e-budokai.com/hibuki/jutte.htm) Nonostante la pace stabilita dallo shogunato Tokugawa, la polizia feudale giapponese si trovava spesso ad affrontare situazioni critiche e dovette sviluppare in fretta nuove tecniche e attrezzature per fronteggiare la criminalità. In una società maschilista come quella del periodo Edo la competizione era feroce e con il rapido aumento delle interazioni tra le varie classi sociali e l’espandersi degli agglomerati urbani spesso le discussioni sfociavano in rissa. La giustizia era spesso sinonimo di violenza e l’ampia percentuale di popolazione armata faceva si che il minimo disaccordo sfociasse in un bagno di sangue. per mantenere il controllo, gli ufficiali di polizia ed i loro assistenti svilupparono molte armi e tecniche di arresto dei facinorosi, spesso armati e pronti a tutto. Tra queste c’era un bastone munito di ganci metallici per catturare i vestiti dei sospetti e immobilizzarli forzandoli al suolo; inoltre per catturare persone disarmate spesso venivano usati bastoni e randelli di legno. Una delle più originali armi della polizia di quel periodo fu senz’altro il jutte, un manganello di acciaio che deve la sua diffusione alla capacità di parare i fendenti di spade affilate come rasoi e di disarmare gli assalitori senza causargli gravi danni. Essendo essenzialmente un arma di difesa e costrizione, la lunghezza del jutte richiedeva a chi l’impiegava di essere molto vicino a chi doveva essere catturato. Un uncino o una forca, chiamata kagi e posizionata vicino all’impugnatura, consentiva al jutte di bloccare ed addirittura spezzare la lama di una spada, così come di colpire di punta o di afferrare i vestiti o le dita del sospetto, in maniera da disarmarlo o catturarlo senza gravi spargimenti di sangue, inoltre il suo impiego da parte delle forze di polizia finì per farlo considerare come un simbolo dello status di pubblico ufficiale. Sul sito della benemerita FISAS (http://www.scherma-antica.org) ho letto alcune note del Maestro Andrea Lupo Sinclair che ho avuto il piacere di conoscere in una sua Accademia romana qualche anno fa, grazie alla “intercessione” di Vivio, allora Prevosto d'armi della stessa Scuola. In alcune pagine del sito viene spiegata la filosofia ed il metodo alla base della pratica che vi si svolge, considerazioni che trovo condivisibili ed ampliabili anche ad altri ambiti. In particolare si dice: "La Scherma è paradigma e rappresentazione della vita. Tempo, Misura, Strategia e Natura sono presenti in ogni momento della nostra esistenza" ed anche: "La Scherma è innanzitutto conoscenza di sé stessi. Nessuna tecnica può funzionare se non è praticata con estrema consapevolezza e quieto spirito" Credo che chiunque abbia una sufficiente esperienza nella pratica marziale (e non solo, direi...) non possa che condividere queste affermazioni. Non lo sapevo, ma in qualche modo lo presentivo. Ma nonostante ciò, non posso non stupirmene. Che il lavoro con i “bo-shuriken” fosse ben più di una pratica di “tiro al bersaglio” del tipo gara dio freccette con una spruzzata di esotismo mi era chiaro, come mi appariva sempre più chiaro che i tempi dilatati tra l’approvvigionamento del materiale per costruirli ed il recepimento degli strumenti necessari non potesse (o dovesse…) essere solo considerato un ostacolo accidentale, ma meritasse una analisi più approfondita, eppure… eppure. Ho sempre pensato, in questo stimolato dagli insegnamenti che ho ricevuto, che i principi e le regole praticati in Dojo potessero, ed in qualche modo dovessero, venire applicati anche al di fuori di questo, nella vita quotidiana. Facile a dirsi certo, soprattutto dopo aver letto le considerazioni di Filippo Goti, curatore del sito internet www.fuocosacro.com, che descriveva come da un lavoro di giardiniere si potessero trarre indicazioni per pratiche di ben altra natura. Eppure… eppure. In una domenica di metà agosto, mentre la maggior parte della gente nuotava in mare, mio padre ed io abbiamo realizzato qualche decina di bo-shuriken, partendo da pezzi di profilo di acciaio con sezione tonda e quadrata di 6 mm. Poco più di un esperimento, partito con mio padre abbastanza scettico per i mezzi di fortuna adottati; abbiamo infatti utilizzato come forgia per scaldare i pezzi di ferro il caminetto esterno impiegato solitamente per il barbecue, e come incudine un pezzo di un binario poggiato su un vecchio ceppo. |
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