In un'altra circostanza, Kenshin, nel fervore della battaglia, si era spinto avanti da solo fino a giungere, non visto, fino all'accampamento nemico. Qui trovò Shingen che, tranquillamente seduto, era difeso da pochi guerrieri: Kenshin, giunto alle spalle, estrasse la spada e la lasciò cadere di piatto sulla testa di Shingen, dicendo: «Cosa direste in questo momento?». Era un classico mondo (domanda) che i monaci zen usavano per saggiare il grado di realizzazione spirituale raggiunto dagli allievi (e non è dall'intelletto, è evidente, che doveva partire la risposta). Imper-urbabile Shingen rispose in perfetto stile zen: «Un bioccolo di neve (cade) sulla stufa infuocata», e parò il colpo con il suo tessen, ventaglio di ferro che era il simbolo del comando in guerra. I
n un'altra occasione, il principe di Hojo, mirando ad indebolire Shingen, senza tuttavia combatterlo apertamente, gli precluse i rifornimenti di sale, prodotto essenziale per la conservazione e la preparazione dei cibi. Kenshin, venuto a conoscenza della cosa, scrisse a Shingen che a suo parere il comportamento del signore di Hojo era ignobile e che perciò, pur essendo in guerra, aveva dato ai propri sudditi l’ordine di fornirgli sale in abbondanza, aggiungendo: "Io combatto con la spada e non col sale". I due valorosi bushi dalla testa rasata e dal saio monacale sotto l'armatura, vissero coerentemente l'esperienza dello zen sul piano dell'azione guerresca. Takeda Shingen scrisse un trattato in 17 capitoli che dava consigli di comportamento ai samurai. «Un guerriero - è detto in un punto - non deve mai insultare il suo nemico, mai mentire né adirarsi o uccidere, tranne che in battaglia. Egli deve costantemente mostrarsi prudente, leale, silenzioso. Sarà disonorato quel samurai che parlerà in pubblico di mangiare, di bere, di vendere o d'acquistare, così come quegli che resterà ozioso».
Come ogni samurai d'alto grado, Shingen fu anche abile poeta, dotato di una profonda sensibilità, tipicamente giapponese, verso la natura. Shingen, visitando un tempio buddhista nella parte più remota del suo feudo, fu invitato in un vicino monastero dall'abate che era stato suo maestro nella disciplina zen. Shingen, dapprima declinò l'invito poiché doveva iniziare una guerra fra pochi giorni; poi, quando seppe dall'abate che i ciliegi del monastero stavano proprio allora per fiorire, non volle perdere l'opportunità di godere dell'hana-mi (visione dei fiori) - ove il sentimento del fu-yú poteva libera-mente manifestarsi - e si recò al monastero.
Sarà quell'abate che, morto Shingen, perirà tra le fiamme con tutti i suoi monaci per essersi rifiutato di consegnare ai soldati di Nobunaga i superstiti samurai di Shingen, rifugiatisi nel suo monastero. La lotta tra il clan di Shingen e quello di Kenshin è anche celebre per le strategie di guerra allora per la prima volta usate. I due generali giocavano alla guerra come se fosse una partita di scacchi. Negli ultimi tempi, malgrado il loro valore, essi non partecipavano più ai combattimenti, ma si limitavano a sorvegliare la battaglia dall'alto di una collina e davano gli ordini con un bastone bianco.
Takeda Shingen è noto pure per aver creato una scienza esoterica della strategia e della tattica che, dal nome del suo feudo di Kóshú, verrà chiamata kòshúryú. La prima grande guerra fra Shingen e Kenshin durò dal 1553 al 1564; nel 1557 essa fu interrotta con una tregua per permettere a Kenshin di ristabilire l'autorità dello shógun Yoshiteru, che alcuni vassalli avevano deposto. La guerra riprese nel 1560, nel momento che Kenshin aveva circondato gli Hójó in Odawara.
Shingen morì nel 1573 e la storia della sua fine costituisce la trama, seppure assai romanzata, del fim “Kagemusha – l’ombra del guerriero” di Kurosawa. Una notte, mentre ascoltava della musica, fu sorpreso dalle truppe di Ieyasu, alleato di Nobunaga. Ferito ad un braccio da una freccia, si ritirò in un rifugio, in attesa di guarire. Dopo alcuni mesi la ferita si riaprì. Shingen, sentendo avvicinarsi la morte, disse ai suoi amici: «Quando avrò reso l'ultimo respiro, gettatemi nel lago e mantenete segreta la mia morte: non voglio che i miei samurai si scoraggino».
Prima di morire scrisse i suoi versi d'addio alla vita (jisei): «"Esso" è lasciato alla sua propria naturale perfezione; e questa non ha alcun bisogno di ricorrere a colorazioni artificiali o a ciprie per apparire bella». I versi si richiamano alla letteratura zen e si riferiscono all'assoluta perfezione della Realtà ultima, dalla quale veniamo, nella quale torniamo e nella quale ci troviamo. Un mondo di molteplicità se ne va e ritorna, ma ciò che è dietro ad esso mantiene sempre la sua perfetta bellezza senza mai mutare.
Kenshín pianse quando ebbe notizia della morte di Shingen, suo valoroso avversario che aveva combattuto per quattordici anni e che definì “il migliore dei nemici” e lo seguì dopo cinque anni.