Una delle opinioni più frequenti che accomuna i principianti che da poco si sono accostati alla pratica delle Arti marziali e coloro che invece ne hanno una conoscenza superficiale e indiretta è quella di considerare il conseguimento della “cintura nera” come un punto d’arrivo e ritenere tutti coloro che la indossano degli esperti, a prescindere dal loro grado e dalla loro abilità.
E’ questo uno degli equivoci più radicati e diffusi, alimentato da ignoranza, malafede ed incomprensioni, che non di rado “inquina” il rapporto tra Maestro ed Allievo e falsa – anche gravemente – il percorso e la prospettiva di pratica di quest’ultimo.
Questa premessa appare necessaria per meglio spiegare il motivo delle note seguenti, che – come in altri scritti - vogliono solo riportare alcune riflessioni personali stimolate da alcuni aspetti dell’Arte ma che non debbono necessariamente intendersi come interpretazioni o effetti dell’Arte stessa.
Nel caso specifico quindi, si cercherà di prescindere sia dalla esaltazione della cintura che dal suo svilimento, tentando piuttosto di fornire ai praticanti di Arti marziali un punto di vista diverso, dal quale esaminare questo indispensabile accessorio della pratica.
Dello scopo e del significato
Nel mondo delle Arti marziali c’è anche un altro atteggiamento rispetto al valore della cintura, affatto opposto a quello riportato nelle righe precedenti e spesso citato come aneddoto attribuito a Maestri o praticanti del passato: considerare le cintura solo come oggetto necessario a tenere su i pantaloni o – nel caso dei keikogi – per tenere chiusa la giacca. Ovviamente la cintura serve anche a questo, ma non solo a questo.
Insegnanti, libri e – oggi – siti internet, hanno speso e spenderanno fiumi di parole su questi argomenti, sul significato dei vari colori, sul numero di livelli di esperienza che individuano e sulla simbologia dei nodi impiegati per legarla; mancanza di spazio e di esperienza mi sconsigliano di approfondire il significato simbolico che non pochi praticanti attribuiscono a questo (apparentemente) banale pezzo di stoffa, a volte colorata (1). Ciascun praticante, ciascuna Scuola e ciascuna Arte ha le proprie idee in merito, ed è bene che così sia, appare però utile quantomeno riportare una breve analisi storica sul come le cinture colorate siano arrivate sui tatami.
Le cinture colorate come oggi le conosciamo non hanno mai fatto parte della tradizione di nessuna arte marziale antica, quantomeno non con il significato che oggi da più parte gli si riconosce. In Giappone, nelle varie Ryu (Scuole di Arte tradizionali) l’insegnamento veniva suddiviso in livelli identificati in “mokuroku” che avevano contenuti, modalità di trasmissione e tempi di studio variabili da Scuola a Scuola. Solitamente, nella maggior parte di queste, i livelli erano tre, ovvero Shoden (insegnamento di base, lett. “piccolo”), Chuden (insegnamento avanzato, lett. “mediano”), Souden o Okuden (insegnamento superiore, lett. “riservato”), dopo il quale il praticante poteva essere insignito del Menkyo Kaiden, ovvero dell’attestato di totale trasmissione delle tecniche dell’Arte, quasi sempre accompagnato dalla consegna dei densho, ovvero libri, costituiti da uno o più rotoli, in cui erano elencate, ed a volte descritte, le tecniche ed i principi dell’Arte stessa.(2)
Nelle Ryu tradizionali l’insegnamento, specie ai livelli avanzati, era praticamente individuale, basato sul principio “I shin de shin” (“da spirito a spirito”), non di rado con differenze tra l’uno e l’altro praticante, tale percui il Maestro non aveva certo bisogno di una cintura colorata per sapere il livello di esperienza di un suo allievo, anche perché quasi sempre l’uno e l’altro appartenevano allo stesso Clan o avevano legami stretti e duraturi nel tempo.
Quando alla fine dell’ 800 la società giapponese vide un quasi totale sconvolgimento delle sue secolari abitudini, molte Ryu marziali si aprirono anche a praticanti non appartenenti al proprio Clan, così come ad allievi (tipicamente appartenenti della borghesia) che non avevano necessità di diventare combattenti provetti da impegnare sul campo di battaglia quanto piuttosto di apprendere qualche tecnica di difesa personale per assicurare la propria incolumità in tempi tumultuosi ed insicuri.
Jigoro Kano sensei studiò diversi stili di Jujutsu sotto diversi maestri prima di fondare la sua scuola, il Judo Kodokan, e fu il primo ad usare la cintura nera come simbolo degli allievi esperti, sostituendo il sistema di graduazione tradizionale con un altro costituito da dieci gradi, conseguibili ad intervalli relativamente brevi tra loro per mantenere alto il livello di interesse degli allievi durante la progressione didattica.
Nel 1883 Kano sensei divise gli studenti in due gruppi, i mudansha, ovvero i principianti senza grado e gli yudansha, ovvero i praticanti più esperti ma comunque le cinture nere per distinguere gli yudansha non vennero utilizzate nel Judo Kodokan fino al 1886-7(3) mentre i mudansha indossavano cinture bianche qualunque fosse il grado kyu da loro posseduto, con eccezione di alcune scuole che consentivano ai praticanti insigniti del grado ikkyu di indossare una cintura marrone.
Sulla scelta dei colori bianco e nero non ci sono notizie storicamente certe, ma solo ipotesi più o meno credibili e suggestive; il Dott. David Matsumoto, autore del libro “An introduction to Kodokan history and philosophy” riporta due possibilità per il tradizionale uso della cintura bianca. Prima di tutto, il bianco ha da secoli uno speciale significato simbolico nella cultura giapponese, che lo considera come espressione di pulizia e sacralità e per questo la cintura bianca appare la più adatta per esprimere la pura innocenza e le virtù del principiante.
A quanto sopra si unisce un aspetto più pratico, legato alla qualità del cotone impiegato nella realizzazione dei keikogi che, a causa dell’uso e dei frequenti lavaggi, tendeva a tornare bianco.
Meno facile risulta individuare le motivazioni alla base della scelta della cintura nera per individuare i praticanti esperti, anche se si possono fare due ipotesi che - anche in questo caso - non necessariamente si escludono a vicenda. Da una parte non si può non vedere il nero come colore opposto al bianco, ipotesi che trova senz’altro fondamento nella complementarietà dello Yin – Yang del Taoismo cinese, che in Giappone si trasformano nello In – Yo.(4)
A questa ipotesi si affianca quella che si origina dalla individuazione dei nuotatori esperti che – nelle competizioni – erano distinti dai principianti tramite un fiocco nero stretto intorno al bacino. Il Dott. Kano Jigoro, che era tanto un professore accademico particolarmente interessato alla letteratura della Cina classica così come un profondo conoscitore e praticante attivo di tante discipline sportive sicuramente era a conoscenza di questo espediente e può averlo incorporato nella pratica del Judo.
Per quanto suggestive siano le tante ipotesi proposte per spiegare le motivazioni delle cinture colorate che individuano i gradi kyu, la realtà è che queste - di colore giallo, arancio, verde e blu - ebbero origini in Europa e furono importate negli USA negli anni ‘50 e di li arrivarono in Giappone, accolte con favore forse anche perché in qualche modo si richiamavano ad una divisione gerarchica profondamente radicata in Oriente.(5)
La società giapponese era ed è strutturata in maniera molto “verticale”; sin dal periodo Heian i rapporti personali sono regolati da gerarchie sociali ben definite e rispettate. Chiunque, tanto in famiglia quanto sul posto di lavoro o in società, ha ben chiaro il proprio status ed a questo adatta le interazioni pubbliche e private.
L’adozione di un accessorio di abbigliamento colorato come la cintura, indossato su una uniforme per definire un livello gerarchico, oltre a non essere una novità (6) era un espediente visto come un normale ausilio rapportarsi con gli altri nel rispetto della etichetta.
Dal Judo il sistema dei gradi Kyu-Dan passò al Karate dopo che Funakoshi Gichin sensei mostrò le sue tecniche presso il Kodokan negli anni ’20, e dopo fu solo questione di tempo perché lo stesso sistema di graduazione venisse adottato da altre Arti marziali di “nuova generazione” (Gendai Budo) quali Kendo o Aikido.
Sostanza e apparenza
Come afferma un noto proverbio popolare, “l’abito non fa il monaco” e quindi, per traslato, la cintura non fa il praticante. Come detto in principio è quantomeno azzardato giudicare il livello di esperienza di qualcuno dal colore della sua cintura, specie al giorno d’oggi quando queste sono liberamente acquistabili in qualunque negozio di articoli sportivi.
Ed anche lo stato di usura della cintura non è affidabile al cento per cento… è bello credere che la cintura rappresenti l’esperienza del praticante e non vada mai lavata per non “cancellare” quanto faticosamente imparato, è suggestivo quindi immaginare che da bianca la cintura diventi sempre più scura con l’aumentare dell’esperienza e che quindi – una volta divenuta nera – testimoni del lungo periodo di pratica di chi la indossa, è affascinante pensare che con il proseguire della pratica la cintura subisca l’usura del tempo e dell’uso e si sfilacci, mostrando la sua anima interna di colore bianco, indicando così che il praticante si è “liberato” della tecnica diventando un tutt’uno con l’Arte, raggiungendo la libertà dalle tecniche codificate ed acquisendo la “mente del principiante” con la consapevolezza dell’esperto (7)… a tutto ciò fa da contraltare l’amara consapevolezza che esistono squallidi personaggi che strofinano a bella posta le loro cintura su superfici abrasive per accelerare il suo degrado, millantando una maturazione che – almeno spiritualmente – mai raggiungeranno.
Ancora una volta è doveroso considerare che se l’Arte può fare l’uomo, è sicuramente l’Uomo che fa l’Arte. Quello che appare in evidenza può testimoniare della reale essenza in alcuni casi, così come in altri può ingannare, in maniera anche eclatante.
Ma se determinati simboli vengono riconosciuti come tali da persone diverse, distanti tra loro centinaia di anni o migliaia di chilometri un motivo c’è, e questo va ben aldilà dei miseri espedienti che i millantatori possono adottare per appropriarsi di un titolo che non gli appartiene.
La cintura, pur nella sua apparente semplicità, è uno di questi simboli, ed è a questa sua peculiarità che dedichiamo le righe che seguono. Come detto in premessa, non è scopo di queste poche righe addentrarci in complicate analisi simboliche, poiché è bene che queste vengano sviscerate da ciascuno in base al proprio livello, alla propria sensibilità, ed al proprio interesse. Ci limiteremo quindi a pochissimi spunti di riflessione, che potranno stimolare, in chi lo vorrà, ulteriori approfondimenti, auspicabilmente indirizzati dal proprio insegnante.
La cintura viene indossata intorno alla zona addominale e lombare, ed in Oriente queste parti del corpo sono tra le più importanti del corpo umano: l’una è sede del centro energetico dell’uomo, chiamato hara in giapponese e tatien (o dantian) in cinese, l’altra accoglie – secondo la Medicina Tradizionale Cinese – il sistema Rene e la fonte stessa da cui sgorga l’energia riproduttiva (e non solo…); sull’una c’è il punto Chi Kai (“Oceano di Energia”), sull’altra il punto Ming Men (“Cancello della Vita”). All’altezza della cintura troviamo il chakra Svadhistana, associato all’elemento Acqua, e lungo il percorso di una ipotetica cintura si sviluppa uno dei “meridiani straordinari” della Medicina Tradizionale Cinese.
Questa zona è assai importante nella tradizione orientale, le pratiche di diverse discipline (come il Tai Ji Chuan o il Qi Gong) mettono molta enfasi sullo stimolare e tonificare questa parte del corpo, e la cosa è facilmente comprensibile considerando che qui hanno sede il sistema digestivo, il sistema escretore il sistema genitale, ovvero quanto permette alla “macchina uomo” di alimentarsi, depurarsi e riprodursi.
Se ci fermassimo qui, peccheremmo della presbiopia culturale che vede il giardino del vicino sempre più verde del nostro; in realtà basterebbe pensare che la zona della cintura viene qui da noi identificata come “vita” per renderci conto che anche in Occidente l’importanza di questa parte è tutt’altro che ignorata, come dimostrano – ad esempio – queste citazioni tratte dalla Bibbia.
Il Signore mi parlò così: “Va’ a comprarti una cintura di lino e mettitela ai fianchi senza immergerla nell’acqua”. Io comprai la cintura secondo il comando del Signore e me la misi ai fianchi. Poi la parola del Signore mi fu rivolta una seconda volta: “Prendi la cintura che hai comprato e che porti ai fianchi e va’ subito verso l’Eufrate e nascondila nella fessura di una pietra”. Io andai e la nascosi presso l’Eufrate, come mi aveva comandato il Signore. Ora, dopo molto tempo, il Signore mi disse: “Alzati, va’ all’Eufrate e prendi di là la cintura che ti avevo comandato di nascondervi”. Io andai verso l’Eufrate, cercai e presi la cintura dal luogo in cui l’avevo nascosta; ed ecco, la cintura era marcita, non era più buona a nulla. Allora mi fu rivolta questa parola del Signore: “Dice il Signore: In questo modo ridurrò in marciume la grande gloria di Giuda e di Gerusalemme. Questo popolo malvagio, che rifiuta di ascoltare le mie parole, che si comporta secondo la caparbietà del suo cuore e segue altri dei per servirli e per adorarli, diventerà come questa cintura, che non è più buona a nulla. Poiché, come questa cintura aderisce ai fianchi di un uomo, così io volli che aderisse a me tutta la casa di Israele e tutta la casa di Giuda perché fossero mio popolo, mia fama, mia lode e mia gloria, ma non mi ascoltarono”.
(Dal libro del profeta Geremia, 13,1-11)
Nella Bibbia, come in tutti i libri sapienziali, gli insegnamenti sono spesso veicolati tramite simboli ed allegorie; in questo caso Dio ordina al profeta Geremia di mettere ai fianchi una cintura di lino; po, di nasconderla nella fessura di una pietra e, dopo molto tempo, di riprenderla quando era ormai marcita. Per il popolo di Israele la cintura era non solo un capo importante dell’abbigliamento maschile e femminile, ma anche un elemento fortemente simbolico. La cintura era simbolo di giustizia, di fedeltà, di verità e come tale la ritroviamo anche in altre citazioni: Isaia, annunziando il Messia, dice che “fascia dei suoi lombi sarà la giustizia, cintura dei suoi fianchi, la fedeltà” (Is 11,5). Nel libro dell’Esodo, agli Ebrei che si preparano ad abbandonare l’Egitto viene detto: “Mangiatelo in questa maniera: con i vostri fianchi cinti, con i vostri calzari ai piedi e con il vostro bastone in mano; e mangiatelo in fretta: è la Pasqua del Signore." (Esodo 10,11).
La stessa importanza è presente tanto nell’Antico Testamento che nei Vangeli e negli Atti degli apostoli, infatti Gesù, parlando della fedeltà, dice ai discepoli: “Siate pronti con la cintura ai fianchi e le lucerne accese” (Lc 12,35). E San Paolo raccomanda ai cristiani di Efeso “State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia” (Ef. 6,14). E ancora, nel famoso episodio della lavanda dei piedi che precede l’istituzione della eucarestia: "Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto."
Come si vede da questi esempi quindi, tanto la cintura, quanto l’atto di cingersi i fianchi era tutt’altro che banale ma – al contrario – aveva profonda importanza. In Egitto si faceva un particolare nodo alla cintura delle defunte per metterle sotto la protezione di Iside (Libro dei morti, CLVI) mentre i funzionari governativi cinesi portavano la cintura come simbolo d'autorità, il pellegrino legava alla cintura la sacca con le provviste per il suo viaggio e la madre di una sposa, subito prima delle nozze, fissava una cintura alla vita della figlia per inaugurare il suo "viaggio" coniugale, che aveva il suo inizio con il reciproco scambio di cinture fra gli sposi. Presso i Romani la cintura rappresentava il grado solenne della Milizia, e in generale indicava in chi la indossava professione militare o equestre, poi cavalleresca. La cintura quale supporto per l’arma bianca prima e da fuoco poi, anche nelle sue diverse “variazioni sul tema” quali bandoliere e giberne, è ancora oggi propria della divisa militare e – per traslato – della autorità civile (dalla fascia del sindaco a quella degli ufficiali, ai collari che sostengono medaglie e onorificenze).
Nel simboleggiare un ruolo, possiamo dire – senza temere di esagerare troppo - che la Cintura identifica il Guerriero come la Corona identifica il Re (8). Entrambe inoltre delimitano l’Uomo, l’una rispetto alla Terra e l’altra rispetto al Cielo, non tanto con funzione separativa quanto come individuazione di un limite da rispettare e – se del caso – superare.
Conclusioni
Nelle Arti tradizionali, ogni gesto, sia pure all’apparenza insignificante o banale, ha un suo proprio significato e importanza. Nulla è di troppo e nulla può essere trascurato. Così, nel caso di un praticante di Arti marziali orientali, anche il modo di indossare la cintura, di eseguire il nodo, di sistemare le estremità testimonia, agli occhi di un osservatore attento, la qualità di chi quella cintura indossa.
Oggi come ieri, indossare la cintura di un keikogi non deve essere solo un espediente per mantenere i pantaloni o chiudere la giacca ma piuttosto uno dei tanti atti che ci permettono di riflettere su cosa, come e perché pratichiamo, sul significato e sulle motivazioni del nostro addestramento. Nel passare dai panni “profani” a quelli della pratica, stringere la cintura è l’ultimo atto, è il suggellare una scelta, è il sigillare il vaso affinché l’Opera si compia senza contaminazione, è il punto di “non ritorno” raggiunto il quale deve necessariamente trasformarsi il modo di agire, pensare, muoverci e parlare.
Evidentemente, non si tratta di illudersi di essere samurai giapponesi del sedicesimo secolo, siamo uomini occidentali del millennio successivo e sarebbe patetico voler vestire panni che non ci appartengono. Si tratta piuttosto di esperire la possibilità di ritrovare il contatto con una fratellanza che esiste aldilà del Tempo e dello Spazio, dal nome cangiante e dai principi immutabili, in cui ci si riconosce l’un l’altro non attraverso patenti ed attestati di dubbia autenticità ma grazie ad un sentimento che non può essere falsificato.
Note:
(1) Si veda, ad esempio, quanto riportato da Paolo N. Corallini shihan in “BUDO E SIMBOLISMO”, saggio riservato agli appartenenti alla Takemusu Aikido Association Italy
(2) Antonino Certa shihan, “DAITO RYU AIKIBUDO Storia e Tecnica, Luni Editrice, pag. 63
(3) Questa ed altre notizie sono tratte principalmente da “Belt colors and ranking tradition” di Don Cunningham, disponibile sul sito internet www.e-budokai.com, a cui si rimanda il lettore interessato a maggiori approfondimenti.
(4) “Aiki In Yo Ho”, ovvero “Dottrina dello spirito basata sullo Yin – Yang” è il nome con cui era chiamata l’antica Arte marziale in cui venivano addestrati i soldati ed i dignitari del Clan Takeda, poi rinominata Daito Ryu Aikibudo. Cfr. Antonino Certa shihan, “DAITO RYU AIKIBUDO Storia e Tecnica, Luni Editrice, pag. 16 e seguenti. A legare l’antico Daito Ryu Aikibudo ed il moderno Judo è soprattutto Shiro Saigo, che fu uno tra i primi yudansha di Judo nominati da Kano sensei dopo essere stato in precedenza uno dei più abili ed esperti praticanti dell’Arte del Clan Takeda.
(5) Invece della cintura nera, in alcune Arti marziali – Judo in particolare - gli yudansha di grado elevato indossano una cintura di colore bianco-rosso. Anche in questo caso non ci sono certezze sul motivo che a portato a scegliere questi colori, ma solo ipotesi più o meno fondate storicamente. Essendo comunque questa pratica usualmente non adottata dai praticanti di Aikido, l’argomento non viene affrontato.
(6) Nell’Articolo di Cunningham richiamato in una nota precedente, viene citato Meik Skoss, che al proposito ricorda come nella corte imperiale giapponese – sin dai primordi - la gerarchia dei dignitari era indicata da copricapo di diverso colore.
(7) Altra consuetudine derivante dal Judo era che un praticante che avesse conseguito una perizia tale da superare il decimo grado Dan indossasse una cintura bianca (a simboleggiare la “chiusura del cerchio”) ma di larghezza doppia di una normale, per evitare pericolose ed imbarazzanti confusioni con un principiante.
(1) Oltre la corona regale, continuando nel processo ascensionale dell’Uomo, troveremmo l’aureola del Divino, ma trattare questo aspetto ci porterebbe troppo lontano rispetto agli scopi di queste note.