Non a caso il kanji per indicare kamae deriva da due caratteri che significano “costruire con il legno”; al pari di una antica fortezza, un kamae ben costruito non può prescindere da una corretta postura fisica e dal giusto atteggiamento mentale, per evitare che questa crolli al primo soffio di vento o al primo attacco del nemico. Anche del significato del kata molto abbiamo detto nei mesi passati, ed anche in questo caso, per motivi di spazio e per evitare noiose ripetizioni, ci limiteremo a riassumere quanto detto.
Il kata è la forma codificata in cui una determinata tecnica deve essere eseguita; al principiante viene chiesto di eseguire la tecnica nel modo più fedele possibile a come gli viene mostrata, cosi facendo per molte e molte volte, farà propri i movimenti basilari, acquisendo la conoscenza della “forma” esteriore. A questo punto, avanzando nell’addestramento, l’esecuzione del kata permetterà al praticante di comprendere i principi che, applicati, rendono una tecnica efficace e non solo un’insieme predefinito di movimenti, conoscerà insomma la “forma” interiore. Continuando nell’addestramento, ogni budoka si “libererà” della forma, ovvero l’avrà così compresa dentro di sé da essere un tutt’uno con questa, in maniera diversa per ciascun praticante, perché intimamente legata al proprio modo di essere.
A questa interpretazione ci porta, ancora una volta, l’analisi del kanji del termine, che rappresenta la struttura portante della parete di una casa tradizionale giapponese, composta di rami di bambù intrecciati, attraverso cui filtrano i raggi del sole, che nella stanza portano luci ed ombre. Il principiante vede la grata, sempre uguale a sé stessa, il budoka esperto vedrà, attraverso la grata, i guizzi dei raggi ed i loro giochi in chiaroscuro sul pavimento, questi diversi per ciascuno.
Giungiamo così al zanshin, la parte forse più colpevolmente trascurata durante la pratica ma tanto importante quanto le due precedenti. Letteralmente si può tradurre come “lo spirito che continua” o “l’intenzione che resiste” come a significare che, pur essendo ultimata l’esecuzione fisica dell’azione, rimane intatta e vitale l’intenzione che l’ha generata, riportandoci con ciò alla corretta “postura” mentale di cui abbiamo detto parlando del kamae. Era questa una fase fondamentale nella applicazione reale delle tecniche marziali, dove non controllare attentamente un avversario che ritenevamo sconfitto poteva portare a disastrose conseguenze. Molti roghi si sono sviluppati da focherelli improvvidamente abbandonati perché ritenuti spenti, molti combattenti sono stati sorpresi alle spalle da avversari che si ritenevano ormai innocui.
Da qui il zanshin, il mantenere intatte volontà e determinazione della azione, come, ancora una volta, spiegano meglio di tante parole i kanji del termine: il radicale sul lato sinistro significa “nude ossa”, di fianco un paio di alabarde (arma tradizionale giapponese che troviamo anche nell’ideogramma di “bu”, “marziale”) che chiariscono in maniera lampante il significato, ovvero colpire il nemico finchè di lui non rimangano che le nude ossa. Non si tratta quindi di una forza che si esprime in maniera istantanea ed esplosiva, quanto di una energia calma e potente, sempre pronta ad esprimersi quando ce ne sia necessità. Il principiante tenderà a ridurre o ad eliminare lo zanshin, considerandolo quasi una per-dita di tempo e verrà per questo redarguito dal suo istruttore che, conscio della sua impor-tanza, lo inviterà a praticare non eseguendo freneticamente una serie di movimenti fini a se stessi, ma piuttosto effettuando ciascuna tecnica nel modo più corretto, partendo col giusto kamae, eseguen-do il kata al meglio delle sue possibilità, e conclu-dendo il tutto con lo zanshin appropriato. La pratica corretta è come un braciere che arde su un tripode, se una della gambe manca o è diversa dalle altre, il tutto sarà squilibrato.