In Oriente, ed in particolare in Cina e Giappone, i metodi di apprendimento tradizionali, in parte ancora sentiti nel sistema educativo odierno, sono molto differenti dal modello occidentale classico, anche se le differenze, ad uno sguardo più attento, si rivelano essere meno ampie del previsto. Esistono fondamentalmente due approcci all'apprendimento: quello diretto e quello indiretto. In Cina da sempre e a tutti i livelli il metodo impiegato è quello indiretto. Ai bambini tradizionalmente è richiesto di apprendere i classici (i 4 Libri e i 5 Classici) a memoria e la poesia classica a memoria ed in pratica non si stimola mai lo studente, a nessun livello, al pensiero creativo.
Lo studio puramente mnemonico non presuppone che chi apprende *pensi* o comprenda consciamente quanto recita, anzi la comprensione cosciente/diretta é addirittura sconsigliata. Attraverso questo metodo però le informazioni raggiungono comunque il cervello che in maniera inconscia ne elabora le informazioni che, di volta in volta a seconda del livello di maturità raggiunta, è in grado di assorbire. È un processo lento ma profondo che, iniziando in età scolare, modifica la struttura mentale di elaborazione delle informazioni. La lingua cinese stessa è una lingua *mnemonica* nella quale l'apprendimento è basato esclusivamente sulla memorizzazione di 'disegni senza senso' e di 'suoni senza senso'.
Essendo una lingua monosillabica le combinazioni possibili sono aumentate soltanto dai toni ed ecco di nuovo un ulteriore sforzo puramente mnemonico a riconoscere un *suono* anziché un significato. La tradizione marziale, come ogni altra tradizione in Cina, non è che un aspetto della tradizione (sopratutto) Confuciana. In questo senso ad uno studente di una scuola marziale tradizionale si richiede esclusivamente di *copiare* l'insegnante, di *memorizzare* il suo movimento, il suo modo di fare. Il processo di apprendimento è un'osmosi continua di informazioni non-verbali trasmesse tra maestro e allievo.
In Cina in realtà, da sempre e nelle scuole tradizionali anche oggi, la trasmissione effettiva è di tipo esperienziale e non discorsiva. In alcune scuole, la minor parte, si sono sviluppate nel tempo con le varie generazioni delle formule più o meno profonde nelle quali chi le ha create ha cercato di infondere il *senso* maturato con la sua pratica. Ad un livello avanzato la disciplina raggiunge la forma di Arte e per questo le formule sono spesso redatte in forma 'poetica': poemi che, come da Tradizione, sono memorizzati con lo stesso sistema dei classici. Mai logicamente analizzati, mai logicamente compresi. Il poema resta nella mente, da qualche parte, ed il legame con la pratica nasce spontaneo soltanto quando il livello della pratica ha raggiunto il significato del poema.
Quando si parla con personaggi di alta cultura in Cina è sorprendente vedere come siano in grado di citare brani estrapolati dai testi classici in maniera assolutamente automatica quando il discorso lo necessita. Ma la formazione che sottende a questa capacità non sembrerebbe, perlomeno dal punto di vista occidentale, tale da poterla ottenere. In realtà non solo la si ottiene ma è un legame profondo e non-logico, quindi anche stando a livello accademico si tratta sempre e comunque di un legame esperienziale inconscio.
A livello pratico in campo marziale il sistema moderno/occidentale è pieno di rischi: si cerca di capire, di spiegare le *energie*, di scoprire i segreti ... quando in realtà non c'è nulla da capire con la testa, nessuna energia da "sentire" e nessun segreto da comprendere. Quanto più si cercherà di comprendere i segreti o di sentire le energie tanto più ci si allontanerà dalla realtà. Tanto più si analizzeranno i classici con la logica, tanto più non se ne comprenderà il significato. Per questo tradizionalmente il Maestro mostra, l'allievo fa.
Poi fa ancora.
Poi fa ancora.
Non chiede, non pensa, non cerca di capire.
Fa e basta, fino a che le domande che voleva porre hanno una risposta senza chiederle. Solo a quel punto può iniziare a discutere con il maestro perchè, da quel momento in poi, parlano la stessa lingua. Il metodo tradizionale è adatto principalmente ai ragazzi in quanto non hanno ancora formato quei processi mentali di apprendimento che negheranno, o perlomeno rallenteranno, la possibilità di assorbire le informazioni attraverso quel sistema.
Un tempo si diceva che la pratica, marziale e non solo, andava iniziata da "fanciulli", in genere attorno ai 5-6 anni. Anche a livello energetico alcune pratiche vanno iniziate a quella età perchè più avanti, e sopratutto con l'inizio della attività sessuale, non sono più possibili o perlomeno richiedono uno sforzo maggiore. Il “mingmen” - per esempio - è naturalmente ”aperto” in età prescolare per chiudersi in seguito ed in via (praticamente) definitiva con l'attività sessuale. Per questo in alcuni tipi di scuole/pratiche si richiede perlomeno un certo periodo di astinenza. Anche nel processo di apprendimento della arti tradizionali giapponesi l'imitazione del maestro è un punto cardine. La regola didattica è "I Shin Den Shin",cioè dallo Spirito-Cuore-Mente del Maestro a quello del discepolo, che è poi il vecchio insegnamento per “induzione” o, come dicevano mio nonno prima e mio padre poi, per "furto di mestiere".
Il Maestro, non solo marziale ma - nel mio caso - artigiano, anche in questo caso non spiega, si limita a mostrare e spesso in maniera incompleta e parziale, perchè in ogni allievo, o meglio in ogni “ragazzo di bottega” vede un futuro potenziale concorrente ed ha quindi tutto l’interesse che questo impari solo lo stretto indispensabile perché possa adempiere ai suoi compiti di “assistente”, senza che questi abbia le “chiavi” per procedere oltre.
Spesso la bottega artigiana passava da padre in figlio (si, proprio come nel caso delle Ryu nipponiche, in cui il ruolo di Soke seguiva la linea di sangue...) e quindi solo all’erede il Maestro confidava i “segreti dell’arte” negati e nascosti agli altri; ho ascoltato racconti di chi – garzone in una bottega di pittore – veniva mandato a comprare le sigarette quando il Maestro mescolava i colori, in modo da non far scoprire i segreti e le percentuali dei vari componenti, così come molte allieve sarte o ricamatrici venivano destinate dalla loro Maestra più a spazzare il pavimento che a lavorare di ago e spoletta.
Nessuna messa alla prova della pazienza come nel caso de “Il sapore della spada di Banzo” e neppure metodi di dissuasione brutali come quelli del mastro spadaio che con un fendente tagliò di netto la mano del suo aiutante che di nascosto l’aveva immersa nell’acqua della tempra per scoprirne la temperatura. Chi riesce a superare le reticenze e le fallaci indicazione del Maestro va avanti, procede per propria capacità e determinazione; per dirla come una famosa canzone di Gianni Morandi: “Uno su mille ce la fa”. Questo metodo di insegnamento per osmosi però da i suoi frutti solo nel caso in cui si è Uchideshi (allievi interni) e si ha la possibilità di creare un legame perpetuato nel quotidiano col proprio maestro; una bacchetta di metallo non si magnetizza se mon è avvicinata ad un'altra già “carica" o se la muoviamo ad intermittenza, ed infatti, in Oriente come qui da noi sino a pochi anni fa, il rapporto tra Maestro e discepoli era praticamente familiare: la moglie del Maestro qui nelle botteghe dei ceramisti veniva chiamata “zia” così come in Giappone si usava il detto “I miei genitori mi hanno messo al mondo, il mio Maestro mi ha fatto uomo”.
Dunque, nel caso odierno, se non si comprendono i meccanismi alla base di determinate pratiche, l'imitazione può essere limitazione. Laddove quindi la priorità è la comprensione di una pratica, associare un'unica immagine al principio da comprendere può essere fuorviante, se l’insegnamento è limitato a qualche ora settimanale di lezione, perché manca la costante presenza dell’esempio da imitare e la disponibilità di tempo per sviluppare il ciclo “Apprendi – Prova – Verifica – Correggi – Riprova”, che consente un miglioramento continuo per approssimazioni successive più che per salti esperenziali, che al massimo avvengono “una tantum”, costituendo la tanto ricercata “illuminazione”. Il dualismo Aristotelico tra forma e sostanza diviene insolubile quando ad una sostanza corrisponde un'unica forma, un unico esempio, un faro che è più spento che acceso.
A questo punto può diventare possibile – se non auspicabile – quello che in altri tempi era considerato un tradimento, ovvero apprendere da Maestri diversi. Non essendo possibile godere della condizione passata di “molto tempo con un Maestro” si offre l’alternativa di “poco tempo con più Maestri”. Come tutte le scorciatoie, questa può condurci alla meta se percorsa correttamente ma può farci definitivamente perdere se non è chiara la direzione da seguire. Infatti qualunque Arte, specie se marziale, è sterile se non si comprende che un corpo diverso, che una personalità diversa, si esprimerà attraverso un gesto diverso pur restando costantemente fedele al principio che è anima e causa del gesto stesso. Così come esistono tonalità di azzurro e non solo l'azzurro del cielo o quello del mare, così esistono molteplici e forse infiniti modi di esprimere lo stesso principio.
Come nello stracitato esempio del dito che indica la luna, bisogna però che chi guarda sappia che la tecnica che mostra il Maestro Tizio può essere diversa da quella del Maestro Caio, ma comprenda non solo il perché delle differenze ma anche quale sia la base comune da cui queste partono.
Come nel caso di una operazione matematica, la moltiplicazione di numeri diversi tra loro da come risultato numeri differenti, ma ottenuti sulla base dello stesso principio o metodo. Così, sui banchi di scuola, più che imparare a memoria gli infiniti risultati delle infinite moltiplicazioni, è utile ed opportuno comprendere e fare proprio il metodo e le regole della operazione. Ecco che quindi quello che è sconsigliabile ad un principiante, non ancora in grado di cogliere le similitudini nelle differenze, può essere auspicabile per un praticante più esperto al fine di metterlo al riparo dal rischio della “chiusura mentale”, una chiusura data non solo dalla voglia di non aprirsi, ma spesso anche dall'assenza di strumenti adatti a farlo e dalla mancanza dell'esperienza di chi qualche volta è costretto a rimescolare le proprie carte per giocare su altri tavoli.
Il rischio dello “Ipse dixit”, di una accettazione prona e supina senza curiosità e domande è la morte dell’Arte anche se apparentemente ne è la conservazione, imbalsamare un insegnamento lo porta si alla generazione successiva, ma lo rende caldo e pulsante come il dipinto di un fuoco ardente.
Può essere allora opportuno procedere lungo una Via certamente segnata dalle tracce di coloro che ci hanno preceduto, ma stando pur sempre attenti a dove si mettono i piedi, guidati da un lato dalla fiducia verso i nostri Maestri e dall’altro dalla consapevolezza che questi non sono e non possono essere altro che “segnali stradali” lungo una Via che ciascuno di noi deve percorrere col proprio passo, col proprio sudore e con la propria determinazione.
In una lettera spedita a Sigmund Freud, Jung cita un passo tra i più intensi del “Così parlò Zarathustra” di Friedrich Nietzsche su cui mi trovo spesso a riflettere: "Si ripaga male un maestro, se si rimane sempre scolari. E perché non volete sfrondare la mia corona? Voi mi venerate; ma che avverrà se un giorno la vostra venerazione crollerà? Badate che una statua non vi schiacci! Voi non avete ancora cercato voi stessi: ecco che trovaste me. Così fanno tutti i credenti... E ora vi ordino di perdermi e di trovarvi; e solo quando mi avrete tutti rinnegato io tornerò tra voi."