Tira più un pelo di geisha
che una coppia di uke
(M° Kantoyo Keolawoche)
La vita del Maestro
Prima di presentare ai lettori la raccolta delle canzoni composte dal Maestro, abbiamo ritenuto opportuno fornire qualche particolare biografico che aiutasse a meglio comprenderne l’opera e lo spirito. Kantoyo Keolawoche Sensei era dotato di aspetto gradevole e di voce intonata, così fin da giovane iniziò a guadagnarsi da vivere cantando presso i piano-bar della sua città, riscuotendo un grande successo presso il pubblico che, sempre più numeroso, accorreva ad assistere ai suoi concerti.
Una sera di inverno il Maestro ebbe la sventura di essere colpito da improvvisa raucedine pochi minuti prima dell’inizio del suo concerto. Salito, nonostante questo inconveniente, sul palco, offrì una prestazione deludente e irritante, che terminò con una clamorosa stonatura durante il ritornello finale della nota canzone “La porti un bacione a Tanabe”.
Il pubblico pagante, irritato dallo spettacolo assai al di sotto delle attese, espresse il suo disappunto con fischi, lazzi e lancio di ortaggi, mentre alcuni esagitati giunsero ad attendere il Maestro all’uscita del locale dove si era tenuto il concerto per comunicarli, a suon di calci e pugni, la loro delusione.
Questo episodio segnò una svolta cruciale nella vita del Maestro: il crollo repentino di una carriera così faticosamente costruita in anni e anni di duri sacrifici lo illuminò sulla caducità delle cose umane e sulla impossibilità per l’Uomo di contrappore la propria ostinata volontà contro gli imperscrutabili disegni del Fato. La notevole quantità di mazzate ricevute inoltre, portò il Maestro a considerare la necessità di imparare una qualche arte marziale che gli permettesse di difendersi in caso di necessità.
Fu così che Kantoyo Keolawoche fece perdere le sue tracce, ritirandosi nel Dojo “Hariston” presso la sperduta città di Sei-naru-kai, dove si applicò indefessamente alla meditazione ed alla pratica marziale.
La sua costanza fu ben presto premiata, e nel giro di pochi anni Kantoyo Keolawoche diventò il “Dojo-cho” dell’Hariston, ricevendo l’onore e l’onere di istruire i nuovi discepoli.
Ricordando i suoi trascorsi di cantante e forte della della sua esperienza, il Maestro pensò bene di allietare le lunghe ore di pratica con alcune canzoni da lui composte, che avrebbero rinfrancato lo spirito degli allievi, trasmettendo loro nel contempo i principi dell’Arte insegnata.
In ciò il Maestro si ricollegava alla antichissima tradizione dei “Doka” (canti del cammino), poemi dal profondo significato spirituale che sono uno dei mezzi con cui un Maestro trasmette i suoi insegnamenti in modo puro e vibrante.
Nacquero così i “Dojo no uta” (i canti del Dojo), canzoni allegre che ricordavano avvenimenti passati o ribadivano gli importanti principi dell’Arte. Queste canzoni, al pari di tanti altri canti di lavoro (si pensi agli spirituals degli schiavi americani oppure ai canti delle mondine italiane) venivano intonati durante la pratica per dare il giusto ritmo ad un kata oppure cantati al termine dell’allenamento per scaricare il kime accumulato sul tatami.
Sino ad oggi di questi canti non esisteva traccia scritta, poiché questi erano trasmessi oralmente dal Maestro ai suoi allievi, che li mandavano a memoria grazie alle continue ripetizioni; col passare del tempo si è però sentita la necessità di fornire una traccia anche a chi, per motivi geografici o cronologici non ha avuto la fortuna di ascoltare la voce del Maestro e di evitare che le ingiurie del tempo che scorre impietoso modificassero o, addirittura, trascinassero nell’oblio, questo sublime esempio di poesia e dedizione all’Arte.
Scritto nel Dojo “Hariston” di di Sei-naru-kai il dodicesimo giorno del quinto mese del secondo anno di Shoho
Nota sulle trascrizioni:
Per i nomi ed i vocaboli giapponesi è stato usato il sistema di traslitterazione Hepburn: le volali si leggono alla italiana e le consonanti all’inglese.
“Ch” è dolce (michi = mici)
“g” è sempre dura <beata lei! NdT> (bugei = bughei)
“j“ si pronuncia “gi”
“y” si legge “i”
“w” si pronuncia “u”
la “h” è sempre aspirata