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Nel mondo delle Arti marziali coesistono, a mio avviso, una serie di domande ricorrenti, le famose F.A.Q. che si possono racchiudere, con apprezzabile approssimazione, in due piloni principali: il primo è quello che gli esperti (veri o presunti) si scambiano tra loro, il secondo racchiude le domande ed i questiti che gli allievi ed i principianti rivolgono agli gli esperti (sempre veri o presunti). Come è facile immaginare, la suddivisione tra i due filoni non è così drastica, e molte sono le domande che possono collocarsi sia nell’uno che nell’altro senza grandi forzature. Tra i quesiti più ricorrenti, foriero spesso di polemiche e aspre discussioni, e certamente destinato a trovare una risposta diversa per ciascun interpellato, c’è il classico: “Come si riconosce un buon Maestro di arti marziali?”. Eugen Herrigel, "Lo Zen e il tiro con l'arco" Prezzo: € 8,00 Editore: Adelphi Pagine: 108 EAN: 9788845901775 A parere di chi scrive, questo libro sarà probabilmente uno dei più venduti di questa collana della Adelphi, insieme al “Siddharta” di Herman Hesse. Il libro, di appena un centinaio di pagine, è il resoconto di come l’autore, professore tedesco di filosofia desideroso di comprendere quanto piú possibile della cultura e dell'animo giapponesi, recatosi nel 1924 presso la Università Imperiale di Sendia per tenervi dei corsi cerchi di essere introdotto allo Zen. Nei suoi primi tentativi di approfondire a Herrigel viene opposto un cortese quanto netto rifiuto e solo dopo notevoli insistenze viene presentato ad un maestro di Kyudo, l’arco giapponese. Iniziando la pratica l’autore si scontra con difficoltà impreviste e imprevedibili: i gesti più semplici quali respirare, tendere un’arco, scoccare una freccia, si dimostrano quasi impossibili, gettandolo nello sconforto anche a causa dell’enigmatico comportamento del suo istruttore, che gli mostra ripetutamente il gesto da compiere senza fornirgli alcuna spiegazione. Il primo “boom” delle arti marziali orientali in Italia si è avuto senz’altro negli anni ’70, quando i cinema della penisola furono invasi da pellicole che avevano trame e protagonisti assolutamente sconosciuti sino a quel momento. Tra tutte, sicuramente due armi colpirono l’immaginario collettivo, i “nun-chaku” di Bruce Lee e dei suoi epigoni e gli “shuriken” dei più o meno cattivi ninjia che attentavano subdolamente alla vita dell’eroe di turno. Forse pochi sanno che gli shuriken non sono solo le “stelle della morte” mostrate nei film di allora come nei cartoni animati o nei videogiochi di oggi, ma un’arma con storia, scuole e tecniche ben precise. Lo spazio è tiranno e ci impedisce di dilungarci, sappiano i più curiosi che grazie a internet è però possibile reperire molte più informazioni rispetto a quelle a cui ci limiteremo in questa sede. Una delle arti nipponiche che più di altre cattura l’immaginazione occidentale è sicuramente lo shodo, la Via della calligrafia. Al pari di altre discipline quali lo ikebana (arte di disporre i fiori), lo Chodo (arte di preparare e servire il tè) o il bonsai, anche questa sembrerebbe assai poco adatta a rudi e spietati guerrieri quali ci immaginiamo furono i samurai. Tralasciamo al momento le spiegazioni più o meno psicologiche, che chiarirebbero come e perché un uomo quotidianamente a contatto con la morte avesse bisogno di cercare e coltivare l’armonia e la bellezza della vita tracciando segni con un pennello o realizzando piccoli monumenti floreali per ottenere concentrazione ed equilibrio nel corpo e nello spirito. Miyamoto Musashi, "Il libro dei cinque anelli" Curato da: Arena L. V. Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli Data di Pubblicazione: 2002 ISBN: 8817129291 Pagine: 110 Miyamoto Musashi è stato il più grande maestro nell'arte della spada vissuto nel Giappone feudale, inoltre fu anche un profondo conoscitore delle dottrine Zen, un raffinato pittore e un delicato poeta. Per tramandare ai posteri i suoi insegnamenti e i frutti della sua straordinaria esperienza, Musashi scrisse il "Libro dei cinque anelli", che può essere ritenuto il suo testamento spirituale, e che ancora oggi rappresenta una validissima guida tattica e alla strategia in tutte le situazioni della vita. Come tutti sappiamo, durante la pratica e’ usuale impiegare parole e termini giapponesi, qualcuno potrà pensare che questa abitudine sia un modo per “darsi un tono”, per assumere un atteggiamento saccente e superbo, insomma un modo per farsi belli con chi, fuori o dentro il tatami, questi termini li ignora. Niente di più sbagliato, i termini che vengono impiegati durante la pratica tendono a riassumere in una parola i concetti fondamentali dell’Arte che pratichiamo, concetti tanto importanti quanto difficili, a volte, da spiegare in dettaglio; ma difficile non vuol dire impossibile e così, per fornire ai meno esperti una prima chiave di lettura, di seguito riportiamo una analisi, necessariamente superficiale ma, ci auguriamo, esaustiva, dei termini che più spesso vengono usati durante la pratica. Sicuramente molti saranno sorpresi dallo scoprire cosa si cela dietro a parole come “irimi” o “kokyu”, ma il fascino della nostra Arte è anche questo, il comprendere che più si procede nella pratica e più si scopre che dietro al più semplice gesto o parola si cela un mondo da scoprire ed esplorare. Qualche giorno fa, si è spento Nobuyoshi Tamura, un grande insegnante che tantissimo ha dato all'Aikido europeo (a questo link un bell'articolo del sempre ottimo Marco Rubatto) e così ho pensato che uno dei modi per onorare la sua memoria poteva essere il riproporre un estratto del suo libro: "Aikido: Etichetta e Disciplina", presente sul sito di Aikidoedintorni.com, che affronta in maniera interessante ed approfondita proprio il significato di alcuni dei termini più frequentemente usati nella pratica dell'Aikido (e non solo...). Buona lettura! Edizioni Sannô-kai Distribuzione: Edizioni di AR Non potevamo in questo blog non presentare uno dei testi più famosi e citati nel panorama delle Arti Marziali giapponesi. Questo volume fu scritto nel 1899, un periodo di tormenti e di cambiamenti per il Giappone, un periodo in cui di colpo la nazione si trovava a dover recuperare nel minor tempo possibile un ritardo durato secoli, e in cui altrettanto di colpo la civiltà occidentale tentava di comprendere in pochi anni il senso di quando maturato in Giappone nel corso di millenni di isolamento. E' significativo che quest'opera sia apparsa in inglese, ad opera di uno studioso giapponese che aveva scelto di cavalcare senza compromessi l'onda del cambiamento senza per questo rinnegare il suo passato, quello della sua gente e quello della sua nazione, studiando in America e nelle migliori università tedesche. Con il termine "bushido" che vuol dire "via del guerriero", si intende un codice comportamentale che i samurai di dettero per disciplinare la loro casta. Questo codice venne messo per inscritto da Tsuramoto Tashiro che raccolse le regole del monaco-samurai Yamamoto Tsunemoto (1659-1719) nel famoso testo “Hagakure” che significa "all'ombra delle foglie". Il punto fermo del bushido è l'onore sia in battaglia che nella vita comune, prescrivendo che un samurai debba essere sobrio, modesto, in guerra deve essere coraggioso, leale, solidale e naturalmente deve avere un grande onore. Chiamato anche volgarmente hara-kiri (ventre-taglio), era il modo più onorevole che il samurai aveva per togliersi la vita ed era la dimostrazione finale del suo coraggio. Questo rituale, le cui origini sono sconosciute, era considerato un privilegio riservato solamente ai samurai, che solitamente lo praticavano per seguire il proprio Signore nella morte, per evitare di essere catturato dal nemico in caso di sconfitta, per contestare una decisione presa da un Signore, come sentenza emanata dall'autorità o per espiare colpe commesse verso un superiore. Per comprendere il seppuku bisogna tornare allo studio dello zen praticato dai samurai, secondo cui la morte e la vita erano sullo stesso piano e quindi andavano affrontate con lo stesso atteggiamento distaccato. Per lo “Hagakure” il guerriero deve pensare continuamente alla morte, sia alla mattina quando si alza che la sera prima di dormire, non come ossessione ma in modo che la sua mente sia preparata per affrontarla al meglio quando sarà il momento. |
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